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IL PROGETTO CONTATTI - Dronet

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Questa è l'ambivalenza più insidiosa del lavoro sociale, quella che lo porta a essere tra i mestieri forse piùcomplicati. Il social work possiede il proprio oggetto e non lo possiede nello stesso tempo. L'oggetto c'è,ovviamente, ma se si guarda bene si vede che quest'oggetto è un soggetto, o meglio un intreccio disoggettività: esattamente l'opposto di ciò che ci si aspetterebbe. L'analisi logica che ci veniva insegnata ascuola dice che è «oggetto» chi subisce l'azione, mentre è «soggetto» chi la compie. Ebbene, nel lavorosociale l'oggetto «compie» l'azione. E’ indispensabile penetrare bene in questa apparente banalità.La soggettività, l'intenzionalità, il senso sono caratteristiche essenziali dell'azione. Senza soggettività,l'azione viene meno: è un mero comportamento. Questo è quanto ci insegna la sociologia (di stampoweberiano e poi fenomenologico). L'operatore sociale, a differenza del più fortunato (apparentemente)esperto sanitario, incontra sempre soggetti sulla sua strada. Poi, però, di solito, in pratica, che cosa fa? Perdela bussola e fa «come se», invece di soggetti, questi fossero oggetti. Cambia le carte in tavola su questopunto sostanziale, sul quale non dovrebbe scherzare. E’ da questo preciso errore in poi che ci s’incamminalungo l'improprio modello tecnologico e positivistico (medico/clinico) che così tanti guai ha portato alleprofessioni del sociale.L'operatore sociale esperto è tanto più esperto quanto più sa socraticamente di non esserlo, e di non poterloessere «astrattamente», cioè a prescindere dal sito e dalle circostanze in cui agisce. Non può porre diagnosiobiettive ne effettuare trattamenti obiettivi. La sua fondamentale abilità è quella di agganciarsi ai saperialtrui, essere così fine da riconoscerli anche quando si presentano in forme poco appariscenti o addiritturadimesse (con la faccia di utenti che dicono o dimostrano di sapere poco, o non sapere niente).Considerare i propri interlocutori soggetti vuoi dire per definizione concepirli come fonti di azione dotata disenso (un senso loro proprio). Dentro quel senso soggettivo ci sono informazioni e suggerimenti a iosa,ancorché nascosti o poco decifrabili, che devono retroagire sull’azione professionale. L’azione intenzionaledel professionista incontra altra azione, cioè altra intenzionalità/soggettività e, a questo punto, dovrebbecrearsi un incastro, non il soffocamento dell’una con l’altra. Un’azione incontra un’altra azione e se questerimangono tali, cioè se la soggettività non si elide né da una parte né dall’altra, queste dovrebberocompenetrarsi sprigionando sinergia (un reciproco miglioramento). È questa l'idea basilare della relazione(cioè un azione relazionata ad un’altra) che Donati ci ha mostrato con molta chiarezza (Donati, 1991 ).Riassumendo: le competenze più «basse», cioè più fondamentali, e quindi più «alte», che caratterizzanol’agire professionale dell’operatore sociale sono:a) riconoscere il valore di saperi essenziali fuori di se stessi, in possesso di altre persone (anziché cercaresolo di incensare, per così dire, i propri saperi interni);b) essere capace di andare a raccogliere e incastonare questi saperi non suoi ( esperienziali) nelle sueconoscenze (esperte ) affinché queste abbiano più valore grazie a questa aggiunta;c) essere consapevole che anche i saperi raccolti fuori di lui si valorizzano anch'essi (aumentano il lorovalore intrinseco) per il fatto di essere stati raccolti e integrati in quelli suoi, formali, di operatore.Possiamo ora tornare brevemente a quell’idea che l’utente c’è e non c’è allo stesso tempo, e così cheanche l’esperto c’è e non c’è. Si è detto: nel sociale, un esperto vero sa e accetta che deve «chiedere»cose essenziali per il suo funzionamento ad altre persone in giro; sa di aver bisogno di essere integrato dicompetenze. È consapevole che la sua ignoranza è strutturale ( cioè non è dovuta a incompetenza tecnicao al fatto che non si è iscritto all’ultimo corso di aggiornamento). Ma se guardiamo bene, vediamo allorache è «ottimo» quell’operatore che si presenta nell’atteggiamento tipico di un utente: l’atteggiamento dicolui che non è autosufficiente e chiede integrazioni esterne. Nello stesso tempo, vediamo l’altro latodella medaglia. Quando un esperto bussa alla porta di altri per farsi aiutare (nello stesso mestiere diaiutare), agendo in questo modo, che cosa fa? Struttura la situazione in tal maniera da presumere«esperti», cioè depositari di conoscenze essenziali, le persone a cui si rivolge, anche se questi sonocatalogati amministrativamente come utenti, e quindi incompetenti secondo la visione convenzionale.L’operatore sociale esperto mette in condizione i suoi interlocutori che questuano aiuti di agire per primie di darli a lui, perché poi lui li possa a sua volta restituire loro, e così via circolarmente. L’esperto abile«chiede» lui per primo, oppure, anche senza fare tante domande, sa ascoltare e capire linguaggi che glistessi suoi interlocutori magari il più delle volte non sanno neppure di possedere. Al contrario, un espertotradizionale (non «sociale» ) non ha alcun bisogno di assumere atteggiamenti di ascolto e diapprendimento: egli basa tutto sul suo sapere oggettivo «aprioristico». Un medico, ed esempio, cheaggiusta un osso rotto o che esegue un’operazione chirurgica può far tutto senza chiedere nullaall’esperienza e ai saperi del paziente, ne prima ne dopo l’intervento. L’ascolto e l’apprendimento in situsono vitali invece per l’operatore sociale, che purtroppo gli richiedono una preliminare difficiledisciplina della personalità. Nel suo ultimo libro, Marian Barnes ( l999) ammette che non è dato vederemolto spesso che gli operatori sociali pensino veramente di poter imparare, ad esempio, da una persona

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