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tesi vecchio

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primo negli Stati uniti grazie al fatto che l’assenza di città storiche non<br />

creò resistenza alla modernizzazione incalzante che sostituiva le<br />

dimensioni pedonali delle strade con quelle automobilistiche. Lo sprawl<br />

è tipico della nuova spazialità urbana che tende sempre più a spostarsi<br />

nella periferia e nelle aree peri-urbane, e che ha cancellato il centro come<br />

elemento fondante della sua realtà, contrapponendosi in questo al<br />

modello che dalla polis in poi aveva la piazza come punto ineludibile<br />

della sua configurazione morfologica e simbolica, almeno fino al<br />

modello del modernismo, in cui la città è pensata soprattutto per dare<br />

spazio alla circolazione delle automobili e alle infrastrutture.<br />

Le conseguenze dello sprawl sono state analizzate, fra gli altri, da<br />

Richard Ingersoll, che sottolinea come un tempo «la sintassi delle varie<br />

città si assomigliava ma nessuna città era uguale all’altra» (Ingersoll R.,<br />

2004, p. 11) mentre oggi «la stessa cosa si ripete tante volte ma senza<br />

che vi sia una sintassi» (ibidem, p. 11). Il passaggio da una tipologia a<br />

un’altra della città può essere compreso attraverso la metafora<br />

dell’albero di Christopher Alexander, che assimila la città diffusa ad un<br />

albero gerarchico e genealogico in cui tutti gli elementi sono ricondotti al<br />

tronco, e attraverso quella posteriore di Deleuze, che oppone al modello<br />

dell’albero quello del rizoma, antigerarchico e senza storia – il quale<br />

rappresenta la classica scacchiera della città premoderna – nel quale<br />

ogni punto può collegarsi a qualsiasi altro (ibidem, p. 15). Alla crescente<br />

omologazione della città diffusa, comunque, si è reagito con diverse<br />

teorie dell’urbano, fra cui due relative a tipologie di città<br />

fondamentalmente opposte, il modello della «piccola città» o Krierstadt<br />

di Leon Krier, in cui si teorizza un ritorno ad una piccola dimensione<br />

urbana, e quello della «Generic city» di Rem Koolhaas, che constata<br />

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