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contenute implicitamente negli stati precedenti. Il suo destino è ”aperto”,<br />
il suo futuro non è più determinato dal presente né dal passato» (ibidem,<br />
p. 431).<br />
Dunque, è necessario trovare un nuovo modo di costruire paesaggi e<br />
di vedere paesaggi per far fronte a quella perdita di elementi identitari<br />
che ci procura una sorta di straniamento e ci fa ritrovare in posti dove<br />
«The past is a Foreign Country» (Lowenthal D., 1985) tanto da aver fatto<br />
parlare di morte del paesaggio. I cosmopaesaggi, d’altronde, non sono<br />
solo dei paesaggi dello spazio, ma soprattutto dei paesaggi terrestri visti<br />
dall’uomo che ha già attraversato la fase storica della globalizzazione.<br />
Ma se l’elemento storico, interpretato nel senso della durata è stato uno<br />
dei tratti fondamentali con i quali si è costruita l’identità paesaggistica<br />
della modernità e in un certo senso anche della contemporaneità, ora che<br />
siamo nella società del postpaesaggio, del cyberspazio, del cambiamento<br />
rapidissimo in cui tutto si consuma e si sostituisce e gli stessi parametri<br />
non possono più continuare ad essere validi, come si dovrà articolare il<br />
tempo nello spazio? Probabilmente saranno necessari una nuova<br />
esteticità e universalità (nel senso che il cosmo ritroverà l’antico posto<br />
riservatogli dagli antichi?), capaci di dare un senso nuovo al paesaggio o<br />
al postpaesaggio. In questo senso può darsi che all’interno della dualità<br />
cambiamento e permanenza in cui si dibattono le visioni sul paesaggio<br />
l’intervento del caso lascerà uno spazio maggiore alla variabile<br />
indipendente del caos.<br />
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