«Che cosa fai?» gli chiese Yanez, sempre sospettoso. «Siamo giunti al mio villaggio, orang», rispose il piccolo uomo «e sveglio i miei sudditi. Guarda lassù, su quegli alberi, li vedi?»
CAPITOLO DICIOTTESIMO: I SERGENTI ISTRUTTORI. I negritos del Borneo, al pari di quelli delle Filippine, delle Celebes, di Palavan e di altre grandi isole del mare cino-malese, sapendosi troppo deboli per opporre una valida resistenza ai loro nemici, i quali pare che provino una vera gioia feroce a distruggerli, come se fossero spiriti malefici, non costruiscono i loro villaggi a terra. Allo scopo di preservarsi da improvvisi assalti e dalle stragi, preferiscono, e non a torto, formare, su delle altissime piante delle solide piattaforme ed innalzarvi sopra dei ripari che non si potrebbero chiamare nemmeno capanne, poiché non sono che delle semplici tettoie, aperte a tutti i venti ed alle furiose piogge che di quando in quando, benché a lunghi intervalli, si scatenano su quelle regioni equatoriali e intertropicali. S'intende che quelle curiose costruzioni, che si ritrovano, cosa stranissima, anche sulle rive dell'Orenoco, uno dei fiumi giganti dell'America del Sud, non li preservano completamente da sgradite sorprese, poiché i feroci collezionisti di teste umane, di quando in quando, abbattono od incendiano la foresta, e allora dei villaggi aerei più nulla rimane. I crani dei disgraziati peraltro, più o meno maltrattati, si ritrovano sempre, ed i dayaki non domandano di più, poiché essi non sono come i neo-zelandesi che mettevano una cura estrema nel conservare anche i lineamenti dei vinti nemici. Il villaggio aereo del negrito si componeva d'una mezza dozzina di immense piattaforme e d'una cinquantina di tettoie formate di rami intrecciati e di gigantesche foglie di banani e di arenghe saccarifere. Alle note stridenti dell'angilung, parecchi uomini, dalla pelle nerissima e i capelli cresputi, erano comparsi sui margini delle piattaforme, impugnando delle corte lance e delle cerbottane, pronti a difendersi. Vedendo il loro capo, che credevano ormai perduto, mandarono un urlo di gioia che si ripercosse sotto le tettoie. «Salite, orang» disse il figlio delle foreste, volgendosi a Yanez e Sandokan. «Io devo ad uno dei vostri uomini la vita, e nel mio villaggio avrete tutto quello che i miei sudditi posseggono». Una specie di scala, formata di robustissimi rotang, era stata gettata dall'alto delle piattaforme. Il negrito per primo s'inerpicò con un'agilità da scimmia, subito seguito da Sandokan, da Yanez e da Tremal- Naik. I malesi e gli assamesi invece, per non ingombrare il villaggio, avevano subito improvvisato un piccolo campo alla base degli enormi alberi sostenenti le piattaforme, collocando innanzi tutto le spingarde ai quattro lati della macchia che circondava il villaggio. «Preferirei una capanna a terra» disse Yanez a Sandokan che lo precedeva. «Non so come staremo lassù». «Non molto comodi davvero» rispose la Tigre della Malesia. «Conosco i villaggi dei negritos e soprattutto i pavimenti delle loro tettoie. Bada di non romperti le gambe. Noi abbiamo gli stivali, mentre questi figli dei boschi non li hanno mai conosciuti e posseggono l'agilità delle scimmie». Sandokan diceva il vero, poiché quando Yanez mise i piedi sulla prima piattaforma si fermò assai perplesso, scaraventando quattro o cinque maledizioni al suo Giove. Le piattaforme non erano affatto coperte da tavole, come era sembrato. Le intelaiature erano robustissime e benissimo appoggiate a dei solidi rami, però il pavimento era formato di bambù collocati alla distanza di un mezzo piede, e fors'anche di più, l'uno dall'altro. «Per Giove!...» esclamò Yanez. «Questa è una vera trappola dove si corre il pericolo di rompersi, come tu hai ben detto, le gambe. Questi selvaggi quando vogliono passeggiare sono dunque costretti a fare continuamente una ginnastica indiavolata». «Vi sono abituati» rispose la Tigre della Malesia. «Se avessero però delle scarpe!... Sfortunatamente in questo paese i calzolai non si conoscono». «Non farebbero nessuna fortuna». «Ne sono pienamente convinto». «Orsù, saltiamo?» «Saltiamo pure» rispose Yanez, il quale da qualche istante fiutava, con una certa voluttà, un profumo squisitissimo che usciva da una delle tettoie che era ingombra di donne affaccendate. Stava per cominciare la sua ginnastica, quando vide parecchi negritos giungere con delle grosse tavole. Avevano senza dubbio compreso l'imbarazzo dei loro ospiti e si affrettavano a gettare dei ponti per rendere loro meno faticosa l'avanzata attraverso le vaste piattaforme. «Toh!...» esclamò Yanez. «Come sono gentili questi selvaggi!...» «Non chiamarli allora selvaggi» disse Tremal-Naik, ridendo. «Hai ragione, amico».
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sarà che un giuoco per me strappar
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«Riempimi il bicchiere e dammi un'
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«Sapagar!...» gridò Sandokan. «
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Il luogotenente ed i due scandaglia
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«Le carabine e le spingarde baster
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«A fior d'acqua?» chiese Yanez.
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