Paul Newman in Furia selvaggia di Arthur Penn 30 RdC Marzo 2007
Arthur e <strong>il</strong> popolo dei pistoleri er Inquieto, eccentrico e “armato”: a 85 anni Penn continua a sparare sul cinema Usa. E Berlino plaude... DI LUCA MALAVASI La data non è casuale: all’interno del festival di Berlino una retrospettiva in dieci f<strong>il</strong>m e un orso alla carriera hanno celebrato Arthur Penn a cinquant’anni esatti dal suo debutto nel lungometraggio con Furia selvaggia (The Left-Handed Gun). Che l’abbia fatto un festival europeo, poi, non sorprende, e anzi conferma una volta di più come sia soprattutto <strong>il</strong> vecchio continente, ancora oggi, a capire e ad amare <strong>il</strong> regista, scoperto dai francesi dei Cahiers proprio in occasione del primo f<strong>il</strong>m, che invece passò sotto s<strong>il</strong>enzio in patria. Per questo, ma anche per <strong>il</strong> fatto di essere nativo della sofisticata Ph<strong>il</strong>adelphia e per un lungo soggiorno tra Firenze e Perugia, nel ’50, per seguire alcuni corsi universitari, e per <strong>il</strong> fascino esercitato su di lui dal cinema dei Godard, dei Bergman, dei Fellini, Penn è stato subito definito come “<strong>il</strong> più europeo dei registi americani”. E l’etichetta, una volta tanto, sembra funzionare, a patto però di non ridurre l’europeismo penniano a una questione di st<strong>il</strong>e, intendendolo piuttosto come la fonte priv<strong>il</strong>egiata dello sguardo straniero, eccentrico e inquieto che <strong>il</strong> regista, di f<strong>il</strong>m in f<strong>il</strong>m, ha saputo gettare sulla società e la storia americana, rappresentandole, commentandole e spesso contraddicendole proprio attraverso <strong>il</strong> cinema, i suoi generi e i suoi miti: un sistema di segni e di valori esemplare, con cui egli si è confrontato con misura neo-classica, senza violenze moderniste o sconforti postmoderni. È questo confronto, fondato sul ricorso ai generi e su un’autorialità di “basso prof<strong>il</strong>o”, e realizzato nella pratica di un cinema materico di storie e d’attori, <strong>il</strong> tratto unificante della sua produzione. Penn ha rigirato tutto o quasi <strong>il</strong> cinema da Studio che, al momento del suo debutto, quasi non esisteva più, dal western (B<strong>il</strong>ly Kid, ma anche Piccolo grande uomo e Missouri) alla detection story di Bersaglio mob<strong>il</strong>e e Target, fino al thr<strong>il</strong>ler di Omicidio allo specchio e al più recente Inside, “sociale” e pinteriano, in cui riesce finalmente, dopo PERSONAGGI averci provato per tutta la vita (e soprattutto con La caccia, prima che la produzione decidesse un montaggio diverso), ad affrontare <strong>il</strong> tema della disuguaglianza razziale. E nel rigirarlo, grazie anche alla fisicità di una nuova generazione di attori, da Paul Newman a Marlon Brando, Penn ha finito per aggiornarlo e cambiarlo definitivamente: <strong>il</strong> processo ha sempre seguito un orientamento opposto a quello dei Godard e dei Truffaut a cui talvolta viene accostato, <strong>perché</strong> è dall’interno del cinema, delle sue strutture e dei suoi miti lanciati su una nuova scena sociale, politica e culturale, che <strong>il</strong> regista ha saputo intercettare e assim<strong>il</strong>are, anche esteticamente, <strong>il</strong> nuovo. Da neo-classico senza spargimenti di sangue o attentati ideologicamente premeditati, ma attraverso sconfinamenti controllati oltre i bordi della tradizione. Riguardata oggi, la f<strong>il</strong>mografia dell’autore ottantacinquenne, così piena di aritmie dovute in parte al suo impegno nel teatro (nel 2002 è tornato a Broadway con Fortune’s Foll da Turgenev) e nella televisione, somiglia alla sezione trasversale della storia del cinema statunitense degli ultimi cinquant’anni. Ci parla – in “solo” quindici lungometraggi – della sua industria (contro cui ha sempre lottato, tanto che la lista dei progetti rimasti nel cassetto è infinita) e della sue piccole e grandi rivoluzioni estetiche e produttive, della New Hollywood, di cui Gangster Story (Bonnie and Clyde) è <strong>il</strong> capolavoro, e dei conflitti e dialoghi con la televisione e le sue retoriche. E racconta soprattutto, attraverso un itinerario irriducib<strong>il</strong>e alla nozione di “autore”, la difficoltà di diventarlo e poi di continuare a esserlo sullo sfondo dell’industria hollywoodiana, rispetto alla quale Penn è sempre stato, e continua a essere un po’ straniero, eccentrico, “europeo”: per metà “organico”, per metà “mancino” (e armato) come <strong>il</strong> suo primo eroe. ✪ Marzo 2007 RdC 31 FOTO PIETRO COCCIA