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quando e perché il film-tv crea dipendenza. Nel ... - Cinematografo

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Arthur<br />

e <strong>il</strong> popolo<br />

dei pistoleri er<br />

Inquieto, eccentrico e “armato”: a 85 anni<br />

Penn continua a sparare sul cinema Usa.<br />

E Berlino plaude... DI LUCA MALAVASI<br />

La data non è casuale: all’interno del festival di Berlino una<br />

retrospettiva in dieci f<strong>il</strong>m e un orso alla carriera hanno<br />

celebrato Arthur Penn a cinquant’anni esatti dal suo debutto<br />

nel lungometraggio con Furia selvaggia (The Left-Handed Gun).<br />

Che l’abbia fatto un festival europeo, poi, non sorprende, e<br />

anzi conferma una volta di più come sia soprattutto <strong>il</strong><br />

vecchio continente, ancora oggi, a capire e ad amare <strong>il</strong><br />

regista, scoperto dai francesi dei Cahiers proprio in occasione<br />

del primo f<strong>il</strong>m, che invece passò sotto s<strong>il</strong>enzio in patria.<br />

Per questo, ma anche per <strong>il</strong> fatto di essere nativo della<br />

sofisticata Ph<strong>il</strong>adelphia e per un lungo soggiorno tra Firenze<br />

e Perugia, nel ’50, per seguire alcuni corsi universitari, e per<br />

<strong>il</strong> fascino esercitato su di lui dal cinema dei Godard, dei<br />

Bergman, dei Fellini, Penn è stato subito definito come “<strong>il</strong><br />

più europeo dei registi americani”. E l’etichetta, una volta<br />

tanto, sembra funzionare, a patto però di non ridurre<br />

l’europeismo penniano a una questione di st<strong>il</strong>e,<br />

intendendolo piuttosto come la fonte priv<strong>il</strong>egiata dello<br />

sguardo straniero, eccentrico e inquieto che <strong>il</strong> regista, di f<strong>il</strong>m<br />

in f<strong>il</strong>m, ha saputo gettare sulla società e la storia americana,<br />

rappresentandole, commentandole e spesso<br />

contraddicendole proprio attraverso <strong>il</strong> cinema, i suoi generi<br />

e i suoi miti: un sistema di segni e di valori esemplare, con<br />

cui egli si è confrontato con misura neo-classica, senza<br />

violenze moderniste o sconforti postmoderni. È questo<br />

confronto, fondato sul ricorso ai generi e su un’autorialità di<br />

“basso prof<strong>il</strong>o”, e realizzato nella pratica di un cinema<br />

materico di storie e d’attori, <strong>il</strong> tratto unificante della sua<br />

produzione. Penn ha rigirato tutto o quasi <strong>il</strong> cinema da<br />

Studio che, al momento del suo debutto, quasi non esisteva<br />

più, dal western (B<strong>il</strong>ly Kid, ma anche Piccolo grande uomo e<br />

Missouri) alla detection story di Bersaglio mob<strong>il</strong>e e Target,<br />

fino al thr<strong>il</strong>ler di Omicidio allo specchio e al più recente<br />

Inside, “sociale” e pinteriano, in cui riesce finalmente, dopo<br />

PERSONAGGI<br />

averci provato per tutta la vita (e soprattutto con La caccia,<br />

prima che la produzione decidesse un montaggio diverso),<br />

ad affrontare <strong>il</strong> tema della disuguaglianza razziale. E nel<br />

rigirarlo, grazie anche alla fisicità di una nuova generazione<br />

di attori, da Paul Newman a Marlon Brando, Penn ha finito<br />

per aggiornarlo e cambiarlo definitivamente: <strong>il</strong> processo ha<br />

sempre seguito un orientamento opposto a quello dei<br />

Godard e dei Truffaut a cui talvolta viene accostato, <strong>perché</strong> è<br />

dall’interno del cinema, delle sue strutture e dei suoi miti<br />

lanciati su una nuova scena sociale, politica e culturale, che<br />

<strong>il</strong> regista ha saputo intercettare e assim<strong>il</strong>are, anche<br />

esteticamente, <strong>il</strong> nuovo. Da neo-classico senza spargimenti<br />

di sangue o attentati ideologicamente premeditati, ma<br />

attraverso sconfinamenti controllati oltre i bordi della<br />

tradizione. Riguardata oggi, la f<strong>il</strong>mografia dell’autore<br />

ottantacinquenne, così piena di aritmie dovute in parte al<br />

suo impegno nel teatro (nel 2002 è tornato a Broadway con<br />

Fortune’s Foll da Turgenev) e nella televisione, somiglia alla<br />

sezione trasversale della storia del cinema statunitense degli<br />

ultimi cinquant’anni. Ci parla – in “solo” quindici<br />

lungometraggi – della sua industria (contro cui ha<br />

sempre lottato, tanto che la lista dei progetti rimasti nel<br />

cassetto è infinita) e della sue piccole e grandi<br />

rivoluzioni estetiche e produttive, della New<br />

Hollywood, di cui Gangster Story (Bonnie and Clyde) è<br />

<strong>il</strong> capolavoro, e dei conflitti e dialoghi con la televisione<br />

e le sue retoriche. E racconta soprattutto, attraverso un<br />

itinerario irriducib<strong>il</strong>e alla nozione di “autore”, la<br />

difficoltà di diventarlo e poi di continuare a esserlo<br />

sullo sfondo dell’industria hollywoodiana, rispetto<br />

alla quale Penn è sempre stato, e continua a essere<br />

un po’ straniero, eccentrico, “europeo”: per metà<br />

“organico”, per metà “mancino” (e armato) come <strong>il</strong><br />

suo primo eroe. ✪<br />

Marzo 2007 RdC 31<br />

FOTO PIETRO COCCIA

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