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Vita associativa - OSDI

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N. 2 giugno 2009 LO SAPEVATE CHE<br />

42<br />

mediato dalla cascata dell’infiammazione,<br />

ma i fattori di regolazione e gli effettori<br />

specifici coinvolti rimangono da chiarire.<br />

(Diabetes Care 2009; 32: 329-34)<br />

DIABETE E INFARTO: INSULINA<br />

PRANDIALE E BASALE ALLA PARI<br />

Trattare i sopravvissuti diabetici ad un<br />

infarto miocardico con una strategia insulinica<br />

prandiale o basale porta agli stessi<br />

livelli di HbA1c, senza alcuna differenza<br />

nel rischio di eventi cardiovascolari. Fra i<br />

soggetti con diabete di tipo 2, quelli con<br />

un’anamnesi di infarto presentano un rischio<br />

particolarmente elevato di ulteriori<br />

eventi cardiovascolari: la maggior prevalenza<br />

dei classici fattori di rischio cardiovascolare<br />

in questi soggetti spiega solamente in<br />

parte l’incremento del rischio cardiovascolare<br />

associato al diabete. L’iperglicemia<br />

cronica incrementa questo rischio, e quella<br />

postprandiale è stata associata alle malattie<br />

cardiovascolari indipendentemente<br />

dall’HbA1c o dalla glicemia a digiuno.<br />

Nessuno dei due regimi insulinici proposti<br />

tuttavia risulta pienamente soddisfacente<br />

nel raggiungere i livelli glicemici prefissati.<br />

Sarebbe interessante verificare se i risultati<br />

sarebbero gli stessi aggiungendo altri farmaci<br />

ipoglicemizzanti al regime, oppure<br />

con nuovi farmaci che riducono più efficacemente<br />

la glicemia postprandiale, come<br />

gli agonisti del GLP-1 o i DPP-4-inibitori.<br />

Benché non sia ancora certo se<br />

l’iperglicemia postprandiale sia davvero un<br />

fattore di rischio di malattie cardiovascolari,<br />

probabilmente implementare nella pratica<br />

clinica strategie volte a diminuirla sarebbe<br />

una buona scelta terapeutica, in quanto<br />

sembra il miglior approccio per raggiungere<br />

i valori raccomandati di HbA1c, il che è<br />

sempre positivo per il paziente.<br />

(Diabetes Care. 2009; 32:<br />

381-6 e 521-2)<br />

STEATOSI, INSULINORESISTENZA E<br />

DIFFERENZE ETNICHE<br />

Sono state riscontrate differenze etniche<br />

in campo di steatosi epatica non alcolica<br />

ed insulinoresistenza. La steatosi epatica<br />

non alcolica è costituita da uno spettro di<br />

patologie definite dall’accumulo anomalo<br />

di trigliceridi nel fegato, ed era già stato<br />

precedentemente dimostrato che i soggetti<br />

ispanici ne sono meno a rischio rispetto<br />

agli afroamericani, nonostante il fatto che<br />

in questi due gruppi etnici la prevalenza<br />

dei fattori di rischio sia simile. Il grasso<br />

intraperitoneale è connesso al contenuto<br />

epatico in trigliceridi, a prescindere<br />

dall’etnia: la diversa prevalenza della steatosi<br />

epatica fra i vari gruppi è associata a<br />

differenze simili nell’adiposità viscerale. La<br />

risposta metabolica all’obesità ed<br />

all’insulinoresistenza negli afroamericani<br />

differisce da quella negli ispanici e nei<br />

caucasici: gli afroamericani risultano più<br />

resistenti sia all’accumulo di trigliceridi nel<br />

compartimento viscerale addominale che<br />

all’ipertrigliceridemia associata<br />

all’insulinoresistenza. Molti degli sconvolgimenti<br />

nel metabolismo lipidico tipicamente<br />

associati all’insulinoresistenza non sono<br />

presenti negli afroamericani: una possibile<br />

spiegazione potrebbe consistere nel fatto<br />

che il fenotipo insulinoresistente sia una<br />

funzione dell’organo che contribuisce primariamente<br />

alla riduzione della sensibilità<br />

all’insulina, oppure una funzione dell’abilità<br />

di espandere il tessuto adiposo sottocutaneo<br />

in risposta alla sovranutrizione. Sono<br />

necessari comunque ulteriori studi per<br />

stabilire quali siano le basi del paradosso<br />

dell’insulinoresistenza.<br />

(Hepatology. 2009; 49: 791-801)<br />

OBESITÀ PERICOLOSA QUANTO IL FU-<br />

MO NELL’ADOLESCENZA<br />

L’obesità negli adolescenti conferisce<br />

lo stesso rischio di morte prematura in età

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