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nove senatori firmarono una lettera indirizzata a Bush nella quale si chiedeva<br />
al presidente di rifiutarsi di incontrare Arafat di non interferire con le azioni<br />
di rappresaglia israeliane nei confronti dei palestinesi. Alla fine di novembre<br />
le relazioni tra Washington e Tel Aviv erano decisamente migliorate a causa sia<br />
dell’impegno profuso dalla lobby sia dei facili successi riportati dagli Stati uniti<br />
in Afghanistan, che diedero all’amministrazione Bush l’impressione di poter<br />
vincere la guerra contro al Qaeda anche facendo a meno degli arabi.[...]<br />
Nell’aprile 2002, tuttavia, i rapporti tornarono tesi. Bush era consapevole<br />
di come l’operazione Defensive Shield, attraverso la quale l’Idf aveva di fatto<br />
riacquisito il controllo di tutte le maggiori aree palestinesi della Cisgiordania,<br />
avrebbe inevitabilmente danneggiato l’immagine degli Stati uniti in tutto il<br />
mondo islamico, rendendo ancora più complessa la guerra al terrorismo. Di<br />
conseguenza, l’amministrazione Bush chiese a Sharon di “bloccare l’offensiva<br />
e di dare inizio al ritiro”. Il messaggio fu ripetuto due giorni dopo, con la precisazione<br />
che “il ritiro doveva avvenire senza ulteriori rinvii”. Il 7 aprile, Condoleeza<br />
Rice dichiarò alla stampa: “Senza ulteriori rinvii significa senza ulteriori<br />
rinvii, ossia subito”. Colin Powell, da parte sua, partì per il Medio Oriente<br />
allo scopo di convincere le parti a cessare i combattimenti e a iniziare le negoziazioni.<br />
A quel punto la lobby era già entrata in azione. I funzionari filoisraeliani<br />
presenti all’interno dell’Ufficio alla vicepresidenza e del Pentagono,<br />
fra i quali i neoconservatori Robert Kagan e William Kristol, diedero avvio a<br />
una campagna contro Colin Powell, accusato di avere “cancellato ogni distinzione<br />
fra i terroristi e coloro che li combattono”. Lo stesso Bush era soggetto<br />
a pressioni da parte di leader della comunità ebraica e degli ambienti cristiano-evangelici.<br />
Tom DeLay e Dick Armey invocarono ripetutamente un più<br />
chiaro appoggio a Israele, mentre lo stesso DeLay, insieme al leader della minoranza<br />
al Senato Trent Lott, andò in visita alla Casa bianca per invitare Bush<br />
a cambiare atteggiamento rispetto al conflitto mediorientale.<br />
Il primo segnale che Bush aveva recepito il messaggio si ebbe l’11 aprile –<br />
una settimana dopo che era stato intimato a Israele di ritirarsi – quando l’addetto<br />
stampa alla Casa bianca dichiarò che il presidente era convinto che Sharon<br />
fosse “un uomo di pace”. Bush stesso confermò il giudizio in pubblico, in<br />
concomitanza con il ritorno di Powell dalla sua abortita missione in Medio Oriente,<br />
quando dichiarò che Sharon aveva risposto positivamente all’invito a<br />
un pieno e immediato ritiro. Ovviamente Sharon non aveva fatto nulla di tutto<br />
ciò, ma a Bush sembrava bastare. Nel frattempo il Congresso non era rimasto<br />
inattivo. Il 2 maggio aveva votato contro l’operato dell’amministrazione facendo<br />
passare due risoluzioni volte a riaffermare un incondizionato appoggio a Israele<br />
(approvate al Senato con 92 voti favorevoli e 2 contrari, alla Camera dei<br />
rappresentanti con 352 favorevoli e 21 contrari). [...] Pochi giorni dopo, una<br />
commissione bipartisan del Congresso incaricata di valutare sul terreno la situazione<br />
in Medio Oriente stabilì che Sharon avrebbe dovuto resistere alle<br />
pressioni esercitate dal governo degli Stati uniti affinché negoziasse con Arafat.<br />
Il 9 maggio, un’altra commissione propose uno stanziamento extra di duecento<br />
milioni di dollari a favore di Israele per combattere il terrorismo. Powell<br />
si oppose all’iniziativa, ma la lobby ancora una volta riuscì a spuntarla e il<br />
provvedimento fu approvato.<br />
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