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anza: decisero quindi di abbandonare il kibbuz fondando un nuovo collettivo<br />

che si denominò Zikei Piada (Scintille d’acciaio). Privo di finanziamenti e appoggi,<br />

il progetto non ebbe lunga vita e, a quanto risulta, nel giro di qualche<br />

tempo il gruppo si disperse.<br />

Né nuova, né solo storiografia, né solo israeliana<br />

Non è semplice tentare un bilancio di una tendenza storiografica molto impegnata<br />

che da vari anni produce opere efficaci, stimolanti, ricche di spiriti innovativi,<br />

recensite e discusse spesso con grande scrupolo un poco ovunque. La<br />

difficoltà scaturisce anche perché, da un lato, appunto su scala mondiale, di<br />

tale corrente, dei risultati conseguiti, della sua funzione nell’ambito accademico<br />

e nella realtà sociale, si parla e si ragiona ampiamente: di recente, per esempio,<br />

lo “Scandinavian Journal of Development Alternative”, di Stoccolma, è<br />

intervenuto con un saggio di F. Vivekananda e di N. Massalaha su Israeli Revisionist<br />

Historiography of 1948 War and its Palestinian Exodus. Dall’altro, a<br />

rendere arduo l’entrare in argomento sta il fatto che finora poco e superficialmente<br />

ce ne siamo occupati nel nostro paese. A quanto risulta, l’unico scritto<br />

meditato sul problema, salvo errore, è stato quello di Claudio Canal. 5 In esso<br />

si ripercorrono con equilibrio i principali temi proposti da alcuni tra i più efficaci<br />

“nuovi storici israeliani”: Yehoshua, Porat, Nevillé J. Mandel, Gershon<br />

Shafir, Simha Flapan ecc. La voce di Canal – apparso pure su “il manifesto”<br />

precedentemente, il 7 giugno 1991, con un articolo riassuntivo dell’intera tematica,<br />

e poi il 17 ottobre 1996 per ribadire l’esigenza di fare circolare un po’<br />

d’aria anche qui da noi con qualche traduzione – è rimasta inascoltata. Nello<br />

smilzo panorama degli echi italiani sui nuovi storici israeliani spiccano due<br />

servizi assai prudenti e accuratamente bilanciati, nonostante i titoli rimbombanti:<br />

l’uno su “La Stampa” (15 maggio 1991), centrato sulla polemica contro<br />

e pro l’azione politico-militare di Moshe Dayan tra il “revisionista” Benny<br />

Morris e Asher Susser, direttore di un Dayan Center, e l’altro su “il Corriere<br />

della Sera” (19 dicembre 1994), che si dilunga specialmente sullo scontro sull’opera<br />

di David Ben Gurion tra Benny Morris e Shabtai Teveth, uno dei più<br />

riveriti esponenti della “storiografia tradizionale”. Più recentemente pure una<br />

giornalista italo-israeliana, Fiamma Nirenstein, in un suo saggio su Israele dopo<br />

l’assassinio di Rabin, ha giudicato indispensabile segnalare l’accanimento<br />

della “scuola revisionista”, composta, sembra di capire, da iconoclasti irresponsabili.<br />

6 A sinistra rammentiamo ancora due interventi che non sembra<br />

abbiano recato particolari ripensamenti: l’articolo di Ennio Polito, L’altra storia<br />

di Israele, comparso su “Liberazione” il 28 maggio 1997 e l’intervista di<br />

Michele Giorgio a Ilan Pappé pubblicato su “il manifesto” del 5 giugno 1997.<br />

Quella che è stata definita, con più d’una argomentazione pertinente, la<br />

nuova storiografia israeliana, non si può considerare, in verità, né nuova, né<br />

5 C. Canal, Il velo di Sion. La nuova storiografia israeliana, in “Ventesimo secolo”, 10, gennaio-aprile<br />

1994.<br />

6 F. Nirenstein, Israele: una pace in guerra, il Mulino, Bologna 1996.<br />

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