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Il raccolto - Sardegna Cultura

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imasta per secoli in attesa di seme e che ora si fosse sfogata<br />

tutta in una volta della voglia di generare.<br />

I mietitori erano quindici, Giuanni Cinus compreso. Che<br />

figurati se si era tirato indietro proprio in questo momento,<br />

lui, chi l’avrebbe tenuto dal togliersi una soddisfazione così,<br />

tanto valeva castrarlo. Era lui, anzi, una volta di più, quello<br />

che tirava la “scalata”, e puoi immaginare se sonnecchiava. E,<br />

dietro a lui, per stargli al passo, sotto anche gli altri, ci davano<br />

dentro alla diavola, sgobbavano da maledetti.<br />

I più, fra i mietitori, lavoravano scamiciati, ogni tanto<br />

dal folto emergevano le loro schiene nude in figura di torsi di<br />

bronzo, e lucevano al sole. Nel fronte a mezzaluna che ciascun<br />

mietitore si deve aprire via via che avanza, l’aria era greve<br />

e spessa che si poteva affettare, già quando il sole era appena<br />

a due braccia dall’orizzonte. In queste condizioni era raro<br />

che parlassero, così affaccendati e affranti. Ma attaccando al<br />

mattino, al fresco, non disdegnavano di motteggiare. E era<br />

allora che, rivolti a Giuanni Cinus, mezzo ridendo mezzo<br />

imprecando dicevano:<br />

«O Giuanni Cinus ti venga un cancro, ma questo è grano<br />

o è canna da fiume, che ci si addanna a tagliare».<br />

Dicevano:<br />

«E dove hai preso la semente, te l’hanno data le streghe?».<br />

Dicevano:<br />

«Ma che? Hai fatto un patto con il demonio, Sua Mercé<br />

Satanasso?».<br />

Facezie. Alle quali lui rispondeva grugnendo, bofonchiando<br />

(il fiato corto che aveva in quella foga) e tirando<br />

avanti a falciare. E solo ogni tanto: «Ehi ehi, cantate» badava<br />

a dire. Ma ciò che lo colpiva era che quelle erano le frasi,<br />

identiche spiccicate, che lui “sapeva” sarebbero state dette, da<br />

quando la scena che ora andava svolgendosi gli si era rappresentata<br />

precisa davanti agli occhi quel giorno di novembre.<br />

Tutto, fin nei particolari, si era avverato a puntino. Addirittura,<br />

adesso, queste parole; c’era da cominciare a allarmarsi.<br />

E che? Gli girava per la testa una cosa, e accadeva? Ma allora<br />

era davvero “cantato”, affatturato, non credi?<br />

Ma presto si riprendeva, scrollava le spalle, ma va’. Cantato<br />

un accidenti, affatturato un corno, che gli facessero un po’<br />

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il piacere. <strong>Il</strong> demonio, le streghe, le fatture, le minchionerie.<br />

In malora. Unica cosa era godersi, assaporare come un liquore<br />

la gioia di questo grano favoloso, questa graziadidio mai vista.<br />

Questo non era sogno, immaginazione, guarda. Quali streghe?<br />

Afferrava il manipolo: vieni, bello. E collocava la falce,<br />

torceva, tirava. La brancata di spighe gli restava nella sinistra<br />

e, per districarla, l’alzava quanto poteva, più in alto della sua<br />

statura, come un tirso, una torcia per fare lume. Quasi volesse,<br />

chissà, mostrarla al mondo, al sole, all’universo: eh? E legava<br />

il mannello in un amen, passava a un altro, stesso lavoro,<br />

giù, su, guardate questo; e questo; e questo. E procedeva che<br />

gli chiedevano se avesse il pepe, dietro, cònno da cui era nato,<br />

o se l’incalzasse la morte.<br />

«Ehi ehi» lui diceva «cantate». Mormorassero pure, ché la<br />

bocca l’avevano apposta, purché tenessero il passo. E, per<br />

massacrante che fosse, lo tenevano.<br />

Dietro poi i mietitori, disposte in seconda schiera, venivano<br />

le spigolatrici. Piegate in giù, quasi gattoni, la persona<br />

incernierata sulle anche, la testa ricoperta da grandi pezzuole.<br />

Volumi di gonne e panieri, colombi in pastura. Spigolando,<br />

stuzzicavano i maschi, si scambiavano con essi risate e oscenità.<br />

E leste leste becchettavano senza fermarsi, prontezza<br />

d’occhio e di mano, oltreché di lingua. Tutto ciò che riuscivano<br />

a raccattare – le spighe scampate alla falce – era roba loro,<br />

è la regola. Per questo raspavano, a testa bassa, con tanto zelo.<br />

Sette giorni durò il messare (ché questo è il verbo) e tutt’e<br />

sette fu senza vento, una “tempestate” di sole. I mietitori, più<br />

che avanzava il giorno, e la fatica, e il loro stesso schieramento,<br />

più si sentivano ardere, avevano ogni tanto bisogno di<br />

dissetarsi, perciò occorreva approntare giare, con acqua tenuta<br />

in fresco o vino annacquato, e recarle. E questo era incarico<br />

soprattutto di ’Ntoni, che aveva troppo fragili ancora i<br />

polsi e tenere le reni per durare a falciare. Ma anche Pasqua,<br />

se del caso, era chiamata alla bisogna; la quale rollava a volte<br />

fra le stoppie come ubriaca nel recare i recipienti, mentre le<br />

occhiate dei maschi il fortore del grano l’asciuttezza dell’aria<br />

il caldo torrido le davano nausee. A parte che poi doveva, insieme<br />

alla madre, occuparsi anche del resto, l’usanza essendo,<br />

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