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Il raccolto - Sardegna Cultura

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Lui domandò, fissandola:<br />

«Vuoi?».<br />

Guardava verso l’alto, il viso trepido, quasi rorido, offerto<br />

e sofferto, come se per mille segni implorasse: Non<br />

farmi salire, Fieli Pòrcina, abbi pietà di me; e nel medesimo<br />

tempo come se per altri mille segni dicesse: Su, prendimi,<br />

Fieli Pòrcina, che aspetti? Toglimi in groppa, in fretta e portami<br />

dove vuoi.<br />

E non rispose nulla, né sì né no.<br />

Lui si chinò finalmente, piegandosi tutto di lato. Stese il<br />

braccio per afferrarla. Lei non vide, sentì. Le palpebre, per<br />

un moto loro proprio, si erano affrettate a sbarrare gli occhi.<br />

<strong>Il</strong> braccio girò intorno alla vita, e più su, sotto le ascelle, e<br />

avvolse, pieghevolmente; la mano, che arrivava sul morbido,<br />

era essa stessa concata e morbida. Poi i muscoli del braccio<br />

indurirono, fecero forza, tirarono. Lei si sollevava sulle punte<br />

dei piedi per secondarlo.<br />

Ma non fu, come pensava, un lento issare. Una forza, di<br />

schianto, la sradicò dalla terra, lei si trovò ad un tratto nel<br />

vuoto (così deve sentirsi, sbigottito e tremante, negli artigli<br />

della poiana, il capretto predato) e un istante dopo abbattuta<br />

contro qualcosa, abbrancata tuttora da lui, stretta contro<br />

la sua persona. Non l’aveva levata in groppa, ora capiva, tra<br />

onde, sì invece lì sull’arcione, sul duro dell’arcione e del collo<br />

del cavallo, e quindi piegata riversa e premuta contro di<br />

lui, e ora lui si curvava sopra di lei, lei non vedeva, sentiva, e<br />

stringevano le sue braccia come catene, e sentiva che il capo<br />

le veniva voltato, lei sapeva perché, e difatti premevano ora<br />

le labbra sulle sue labbra l’anello bruciante, lo strano fuoco,<br />

dolore ardore amore, lei non ne aveva perduto memoria dall’ultima<br />

volta quella sera alla sorgente e indugiavano a lungo,<br />

quanto?, un tempo che lei non seppe, che lei non visse,<br />

spento il sole, il respiro, più nulla; oppure, era questo al<br />

contrario il tempo, il vero, prefigurato le tante volte nelle<br />

fantasie rischiando e vendendo l’anima sua peccato e inferno,<br />

e paradiso, che ora di nuovo miracolosamente viveva?<br />

Quanto a lui come da un’anfora, pareva bere. Un lunghissimo<br />

sorso. Si ha sete e si beve. Così si fa, nei brucianti<br />

meriggi, con le piccole anfore serbate in fresco che contengono<br />

l’acqua appositamente lasciata per bere. Si toglie da terra<br />

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l’anfora (è leggera) si appoggia alle labbra e glu glu, “gorgoletta”<br />

si chiama difatti.<br />

<strong>Il</strong> cavallo, al montare del nuovo peso, aveva dato mezzo<br />

passo di fianco per rimettersi in equilibrio sugli appiombi; e<br />

scavezzava. Egli strinse i ginocchi e partì al passo, tenendo la<br />

ragazza ancora così, semiriversa supina stretta al petto, reggendole<br />

le spalle col braccio sinistro mentre la destra badava<br />

alle briglie. Non era insoddisfatto di sé: queste cose vanno<br />

fatte d’impulso prima che dicano no no, ma sì, però, si mettano<br />

a tergiversare come fanno i rivenduglioli. E inoltre con<br />

calma, vanno fatte, ma insieme con ragionevole fretta. Strane<br />

creature le donne. Se gli chiedi il permesso educatamente<br />

e per favore insorgono ma quando mai ma come ti permetti<br />

che quasi ti senti un verme. E poi, quand’è, ti muoiono fra<br />

le braccia. Eccone qua per esempio la prova. Su su, svegliati<br />

dolcezza mia, sta’ buona, agnella mia, che per ora è passata.<br />

Gli accadde, può darsi, di dirle veramente, percettibilmente<br />

quelle parole “sta’ buona”; perché a lei parve di udirle<br />

nello stato in cui era; ma consolanti, placabili, amorose.<br />

E stava buona difatti, e chi si muoveva? Così rannicchiata<br />

com’era contro la persona di lui e sorretta dal braccio di<br />

lui, ritrovava dolcezze di antichi giorni. Nell’ambio del cavallo,<br />

quel sentirsi così stretta dalle braccia di lui la faceva sentire<br />

come cullata, le faceva la ninna-nanna. Muoversi? Mai<br />

più. Un dito che avesse mosso, si sarebbe svegliata. Non osava<br />

neppure sollevare le palpebre, per paura “che facessero rumore”.<br />

Stare così, tra veglia e sogno: tutti i pensieri fuori dell’uscio.<br />

E godersi questo nulla e questo tutto, galleggiare<br />

come una nuvola. Non che dormisse, via: udiva bene lo scalpito<br />

degli zoccoli del cavallo (o era il sangue che batteva contro<br />

le tempie?); vedeva tra i ventagli delle ciglia il lontano<br />

profondo cielo vertiginoso baratro: là sono i santi le sante gli<br />

angeli gli arcangeli e le dolci Marie, il Signore corrusco Sua<br />

Maestà Domine Dio. Percepiva anche gli odori e i profumi,<br />

l’odore della pelle del cavallo, aspro, e quello del tessuto della<br />

casacca di lui che sapeva di lui, e, a tratti, i profumi vaganti<br />

primaverili. Avvertiva certo tutte queste sensazioni, però come<br />

attraverso un filtro, in modo che sì la avvolgessero, e anche<br />

la turbassero, ma senza svegliarla. E più intensa, forte, tale<br />

da sprofondarla ancor più nel languore, avvertiva quella<br />

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