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Il raccolto - Sardegna Cultura

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Ma appunto è come il risveglio da un sogno, che il sogno<br />

è andato, però la sua sensazione perdura. Già consapevole,<br />

ora, che tutto era stato inganno, lui, non di meno, deliberatamente<br />

indugiava nella beatitudine dell’illusione. Che<br />

bello sarebbe stato, se tutto questo fosse potuto accadere.<br />

E perché non poteva?, si chiese a un tratto. Perché? Forse<br />

la cosa era davvero irrealizzabile? E chi lo diceva? E perché<br />

non pensare, invece, che lui, sì, lui in persona, poteva fare<br />

che il sogno, se sogno era, diventasse realtà?<br />

Di nuovo sentiva montare in sé l’ira e l’orgoglio. Sollecitava<br />

lui stesso, ora, i fantasmi, che prima erano sorti spontanei<br />

nella sua immaginazione. Vedeva bene che la terra, nuda<br />

come un ginocchio, altro non era che il campo della sua<br />

presente fatica. Ma le imponeva lui stesso, ora, come un<br />

creatore, il suo vello di messi. Dovrai ben sentire lo sprone,<br />

cagna, e figliare. Aspetta e vedrai. Vedeva bene ch’era solo,<br />

lui, dietro l’aratro nella enorme vastità della campagna. Ma<br />

già si vedeva, nei giorni del <strong>raccolto</strong>, circondato dai mietitori.<br />

Uomini tolti a giornata, assoldati da lui (proprio lui che<br />

era stato giornaliere a sua volta) perché la messe era tanta<br />

che non bastavano braccia.<br />

Riprecipitava, era chiaro, nell’irreale.<br />

“Mano alle falci, fratelli” avrebbe detto ai mietitori “e dateci<br />

dentro fino a schiattare”.<br />

E quelli a mietere, zann, zann, sentiva il crocchio delle<br />

canne del grano raggiunte dalla falce, che gli suonava alle<br />

orecchie più grato del canto dei grilli. Ma presto, saggiata la<br />

consistenza dell’incannato: “O Giuanni Cinus” quelli avrebbero<br />

detto stupiti “ma questo è grano o è canna da fiume?”.<br />

E lui, pomposo: “Ehi, ehi, mietete, poltroni, che già è grano”<br />

avrebbe risposto ridendo e pieno di sussiego. Però lo<br />

stupore dei giornalieri non sarebbe finito lì: sarebbe stata la<br />

quantità delle messi a lasciarli allibiti: “Ma come” avrebbero<br />

detto “tu piovi qui, mai visto e mai conosciuto, e tempo un<br />

anno ti tiri su questo po’ di <strong>raccolto</strong>! E chi sei, Sant’Isidoro?<br />

Hai mangiato alle volte ossa di morti?”.<br />

Facezie. Ossa di morti? Sì, domandassero alle ossa delle<br />

sue spalle, piuttosto, che ci si erano scollate a crescerlo,<br />

questo <strong>raccolto</strong>. Ma non se la sarebbe presa con gli uomini.<br />

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Le loro erano battute scherzose dei giorni della mietitura,<br />

che è il tempo dell’allegrezza.<br />

E naturalmente ci sarebbe stato alla fine anche il banchetto,<br />

il giorno dell’inserro, perché la tradizione va rispettata.<br />

Arrosto di pecora e vino, sicuro, così vuole l’uso e così sarebbe<br />

stato. E lì ancora arguzie, e frecciate, e allegrezza. “Ma<br />

pecore, di’, ne hai compare Cinus, in numero bastante per<br />

sfamarci tutti?”, avrebbero chiesto per punzecchiarlo. E lui a<br />

nicchiare, a dargli corda: “Ehi, ehi, ce ne sarà da ingozzarvi,<br />

non abbiate timore”. “E anche agnelle da latte, hai, no?”<br />

avrebbero magari aggiunto, con maliziosa allusione a Pasqua.<br />

Ma non si sarebbe adontato neanche per questo. Dica<br />

la bocca tutto quello che vuole una volta che le mani stiano<br />

al loro posto. E poi, in questi casi, che s’ha da badare a una<br />

parola di più? Era festa, perdio.<br />

Ancora invischiato in queste fantasticherie, stupì che<br />

qualcuno, a un tratto, lo chiamasse alla disperata: «Ba’, o ba’,<br />

ooh!».<br />

Senza fermare l’aratro si volse e vide chi lo chiamava.<br />

Era Pasqua, ferma al limite del terreno arato, presso la<br />

quercia. Lontana un buon tratto da lui, gridava per farsi<br />

udire e faceva cenni, a braccia alzate, non si capiva cosa dicesse.<br />

Così da lontano, anzi, gesticolante e urlante, pareva<br />

invocasse disperatamente adiutorio.<br />

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