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succedersi, di pianta in pianta: generazioni e generazioni.<br />
Chissà da quando. Chissà fino a quando. E a che pro’ alla fine?<br />
Beato chi può saperlo.<br />
Sorto in piedi come se, col fatto di alzarsi, volesse davvero<br />
trarsi da questi vaneggiamenti, spingeva ora lo sguardo<br />
per tutto il possesso, quanto poteva con gli occhi abbracciarne.<br />
Srotolandosi lungo la china, la luce radente del sole toccava<br />
di sbieco l’erba, crepitava nella guazza notturna, infondeva<br />
in quel vello lieve, animandone indicibilmente il verde,<br />
una specie di ingenua esultanza, una felicità puerile.<br />
Così anche avveniva di quegli oggetti che Giuanni Cinus<br />
aveva costruiti e poi collocati qua e là per i campi: gli aeroplani,<br />
le banderuole, gli aquiloni. Come il vento li urtava, facendoli<br />
vibrare o girare, mettevano suono. E sia la vista (quel<br />
ruotare, quel torcersi, quello sbattere di code e di stracci) sia<br />
il suono (un ronzio monocorde, o un battere ritmico, e palpiti)<br />
risultavano gradevoli, aggiungevano anch’essi una loro<br />
nota di festa all’insieme del quadro.<br />
Ma foschi si intromettevano, spuntando a intervalli nell’ampio<br />
spazio, i tristi fagotti degli spauracchi. Impiccati o<br />
spenzolanti dai loro fittoni, o in questi infilzati e ischidionati;<br />
il tronco impettito e baldo, pieno di paglia e di crine, le gambe<br />
invece flosce, mence, stancamente sgambettanti; e le braccia<br />
crocefisse, spalancate e disperate; e infine, niente testa né<br />
piedi né mani; ebbene, essi no, non facevano festa, non mettevano<br />
nel quadro gaiezza. Anzi, con quell’aspetto grottesco<br />
di suppliziati, vi introducevano una strana nota di pena.<br />
Venendo poi via, il vecchio lemme lemme si incamminava<br />
per la strada carraia verso la fattoria. Passava sotto la quercia,<br />
abitata da uccelli. Ma né i frulli o i cinguettamenti di<br />
questi, né i fremiti delle foglie, valevano a distrarlo. Era là,<br />
sul seminato, con gli occhi e con l’anima, assorto. Custodiva<br />
come un ladro, assaporandolo adagio, il pensiero di quel miracolo:<br />
grano suo, viene, viene. Vi s’involgeva dentro, vi si<br />
crogiolava. Era la speranza che cominciava timidamente a pigliare<br />
spessore. E anche altro, era. <strong>Il</strong> rapporto suo con la terra,<br />
quel senso di comunione quasi fisica in cui si poneva con<br />
essa. Che era insieme, come già si notò, attaccamento e odio,<br />
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brama e rancore, amore, disperazione, rabbia, fornicazione.<br />
Qualcosa che veniva a lui non pure dagli anni della sua vita<br />
di escluso e di senza-terra, ma da più indietro ancora. Che gli<br />
era stato trasmesso dal padre, e dal padre del padre, e così via<br />
enumerando, una processione infinita. Uomini come lui diseredati<br />
eppure incatenati alla terra, legati a essa dallo stesso<br />
odio-amore. I quali, null’altro avendo da lasciare ai seguenti,<br />
questo retaggio almeno gli trasmettevano, come un contagio,<br />
attraverso il sangue. E questa era la sola cosa di loro che avesse<br />
ragione del tempo, rotolando nel tempo la cosa tramandata<br />
come una sfera di ferro inconsumabile. Io questo lascio a<br />
te in eredità e tu lo trasmetterai; e io a te; e io a te; e così di<br />
mano in mano dall’una all’altra generazione, come quando si<br />
doma un fuoco con secchi d’acqua, che si fa la catena.<br />
E lui era l’ennesimo, e per il momento ultimo anello<br />
della catena. Era quello che, nella grama persona sua, riassumeva<br />
una moltitudine.<br />
Perciò, ora, il fatto che questo grano fosse suo, generato<br />
da una terra in suo possesso, svegliava in lui quell’istinto, gli<br />
dava il gusto della rivincita, il piacere del valente che, ripetutamente<br />
respinto da una femmina aspra, l’ha infine messa giù<br />
e forzata e riempita, ha sfogato su di essa la lunga brama, ahah,<br />
portalo ora, in corpo l’hai, femmina mala, il seme mio.<br />
E non c’era dubbio: quant’era vasto il possesso, la terra<br />
mostrava bene la sua gravidanza.<br />
Era piovuto più volte, dopo quel primo acquazzone che<br />
si è descritto, e ancora piovve abbondantemente tutta la fine<br />
di novembre e i primi di dicembre. Fu questo che dette<br />
ancora slancio ai germogli. Una manna, per le speranze di<br />
Giuanni Cinus.<br />
Frattanto crollarono i tempi, con l’avvento di dicembre,<br />
e il freddo si fece sentire, portato dal grande vento.<br />
Dicembre si chiama, laggiù, “mese delle idi”, come interpretano<br />
i dotti, i quali da queste sopravvivenze linguistiche<br />
traggono volentieri motivo per disputare e almanaccare sui come<br />
e i perché di esse. Ma la gente comune non sa più nulla di<br />
cosa siano queste “idi” e pronunzia pertanto tranquillamente<br />
come se fosse – perché il suono assomiglia – “mese delle ire”.<br />
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