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point, con l’umiliazione che la quotidiana esibizione dell’arroganza dell’occupante<br />

comporta per chi ci si deve sottomettere. Non è la prima<br />

volta che vediamo il muro e le case palestinesi distrutte per rappresaglia<br />

dopo un attentato. Ma tutto questo può andare. Quello che non viene<br />

accettato è che i due registi siano andati a toccare lì dove fa male: alle<br />

origini dello Stato di Israele. E che seguendo i due registi nella loro spedizione,<br />

ascoltando ciò che viene detto loro, emerge il rifiuto o, peggio,<br />

la glorificazione da parte di una vasta maggioranza di israeliani di quell’atto<br />

fondativo della violenza: l’espulsione coatta di popolazioni che vivevano<br />

su quella terra da diverse generazioni e che sta al cuore del problema<br />

di oggi. Nel film, infatti, non è Ariel Sharon a dire che “un bravo<br />

arabo è un arabo morto”, ma un capocantiere che utilizza operai asiatici<br />

perché, da dopo l’Intifada, non può più lavorare con gli arabi. Quest’uomo,<br />

che dal Kurdistan, sua terra natale, è venuto a stare qui da<br />

qualche anno, ha il sorriso tranquillo di chi si limita a enunciare un dato<br />

di fatto, e dalla sua aria gioviale possiamo anche immaginare che, a suo<br />

tempo, non andava poi così male con gli operai arabi – insomma, quanto<br />

può andare bene tra un padrone e quelli che sfrutta. Riferendosi all’espulsione<br />

della popolazione araba del 1948, aggiunge: “Hanno perso la<br />

guerra. L’hanno persa e basta. Che vadano nei paesi arabi. Siamo noi ad<br />

avere rifatto tutto, qui”. Discorso diffuso. Un altro, poco più in là, dirà<br />

che di guerre ce ne sono state anche in Europa e che, come a poker,<br />

“quando hai perso, hai perso”. È così che le coscienze fanno i conti con<br />

la storia e, talvolta, li fanno tornare come gli conviene. Ciò che con ogni<br />

diritto potremmo chiamare “pulizia etnica”, lo spostamento di centinaia<br />

di migliaia di persone, è diventato il semplice episodio di una battaglia<br />

contro il male. Vinta. Così Aharon Greenberg: è nato prima della<br />

Seconda guerra mondiale a Tel Aviv da genitori arrivati all’inizio del secolo<br />

dall’Europa centrale seguendo il sogno di una terra promessa, una<br />

terra di pace in cui vivere felici, in cui conoscere nuovi vicini – è questo<br />

che forse pensano – lontani dal ghetto e dalla paura quotidiana. Aharon<br />

cresce qui, in un kibbutz, e quella guerra del 1948 l’ha fatta. Per lui era<br />

una guerra di difesa: quando i paesi arabi – Siria, Giordania, Egitto,<br />

Iraq, Libano – rifiutarono la divisione proposta dall’Onu e dichiararono<br />

guerra a Israele – una guerra che avrebbero perso – non si poteva fare<br />

altrimenti: “Ci voleva un posto per noi, senza arabi. Non potevamo<br />

lasciarci il nemico dietro le spalle”. Il nemico erano i vicini, i contadini,<br />

le donne, i bambini con i quali – come diranno altri – fino a quel momento<br />

avevano vissuto una coesistenza senza attriti, o per lo meno senza<br />

scontri sanguinosi. È stato allora che è cominciata ciò che Aharon chia-<br />

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