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manifestazione di solidarietà con i palestinesi, credo fosse subito dopo<br />
Jenin. In studio c’era Alain Finkielkraut che a un certo punto, mentre<br />
Binoche parlava con grande commozione della sofferenza dei palestinesi,<br />
dice: basta tirare fuori le colpe dell’Occidente, non se ne può più,<br />
l’Occidente non è colpevole di nulla. È incredibile, perché a parlare è<br />
un ebreo; i genitori di Finkielkraut sono stati deportati ad Auschwitz,<br />
una frase del genere cancella completamente la figura del padre. Ma è<br />
un atteggiamento comune nella sua generazione.<br />
La prima negazione però si attua nella separazione tra “noi”, ebrei<br />
laici, emancipati, e “voi” piccoli ebrei dei villaggi. “Noi”, gli ebrei di<br />
città, integrati e ricchi, che detestano il popolo e rivendicano una nazione<br />
europea. Che dicevano: “quando saremo laggiù, cioè in Palestina,<br />
tutti vedranno che siamo tedeschi e che siamo sempre stati tedeschi”.<br />
La nazione ebraica, nelle idee di Herzl, serviva a diventare europei,<br />
cambiando il modo in cui venivano percepiti gli ebrei, che fino ad allora<br />
in Occidente erano stati considerati degli orientali. È, appunto, la negazione<br />
di una parte della nostra storia, della parte orientale dell’ebraismo,<br />
ma anche della storia stessa. E se nel 2002 chi si presenta come un<br />
intellettuale ebreo, con i genitori deportati, dice che l’Occidente non ha<br />
nulla da rimproverarsi arriviamo al negazionismo. È un atteggiamento<br />
molto comune fra i sionisti, che non sono per forza ebrei. Anzi, oggi ci<br />
sono più sionisti tra chi non è ebreo che ebrei sionisti.<br />
Il cinema è un lavoro collettivo e i tuoi film presuppongono una responsabilità<br />
precisa e, immagino, potenzialmente conflittuale, dei componenti<br />
della troupe nei confronti dei soggetti e le situazioni che riprendi. Hai un<br />
modo per condividere il tuo progetto con le persone che partecipano al<br />
film?<br />
Ho avuto la fortuna di fare il primo film in pellicola, in sedici millimetri,<br />
il che permette di avere tempo per riflettere. Ero così sicuro di<br />
me perché ero convinto di sapere tutto già prima di girare. Avevo fatto<br />
disegni, scattato fotografie, ero andato nei campi profughi, avevo scelto<br />
le inquadrature... Sapevo anche che avrei lavorato su un argomento<br />
quale il problema del tempo che mi interessava molto. Volevo mettere<br />
lo spettatore nella condizione di percepire il tempo dei rifugiati, e questo<br />
ha determinato la durata del film. Abbiamo girato per cinque settimane,<br />
ottenendo dieci ore di giornalieri: cosa resta da fare? Si parla, si<br />
discute. Era questo il lavoro sul campo, una discussione insieme politica<br />
e sulla rappresentazione, che ha condotto al film come oggi lo conosciamo.<br />
Il punto era condurre la troupe dentro questa logica. È un discorso<br />
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