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litiche; a meno che non si giudichi, con Henri Cartier-Bresson, che esso sia “al<br />
di là della politica”, tanto sono degni e fieri gli esseri umani scherniti.<br />
Marie Appert, Cinéma du Réel 1987, “Positif”, e320, 1987.<br />
Izkor, les esclaves de la mémoire<br />
Francia, 1991; colore, 97'; v.o. ebraico; regia Eyal Sivan; fotografia Rony Katzenelson;<br />
suono Rémy Attal; montaggio Jacques Cometz e Sylvie Pontoizeau; produttore<br />
esecutivo Ruben Korenfeld; produzione Ima Productions, Rhea-Films,<br />
Zdf, Adam Productions.<br />
“Izkor” significa “ricordati!” in ebraico: è proprio questo imperativo a dominare<br />
l’educazione dei bambini di Israele. Nel mese di aprile a Gerusalemme si<br />
susseguono feste e commemorazioni, e proprio durante questo periodo speciale<br />
il documentarista entra nel sistema scolastico israeliano per interrogare insegnanti<br />
e allievi sul senso della memoria.<br />
Fra le cerimonie e le ricerche dei ragazzi, Izkor indaga su quanto facilmente la<br />
commemorazione collettiva della storia del proprio paese possa essere strumentalizzata:<br />
a commentare il crescendo dei preparativi è il professor Yeshayahu<br />
Leibowitz, filosofo e scienziato ebreo.<br />
Coincidenza di viaggio e di immagini, il primo film visto al mio arrivo al Palazzo<br />
dei Festival doveva rivelarsi sintomatico: Izkor, les esclaves de la mémoire. Izkor<br />
in ebraico significa “ricordati!” oppure “egli si ricorderà”. È su questo imperativo<br />
rivolto ai ragazzi di Israele che s’interrogano il regista Eyal Sivan, israeliano,<br />
e, in contrappunto, il filosofo Yeshayahu Leibowitz. “In verità, a livello intellettuale,<br />
la shoah è un problema per i non ebrei, e non per noi” dichiara il<br />
vecchio saggio... “Ci si ricorda di che cosa ci hanno fatto e questo ci assolve da<br />
tutto. Possiamo uccidere tutti gli arabi nei campi dei rifugiati perché ci hanno<br />
fatto le stesse cose. Nulla è più comodo, psicologicamente, del definirci in funzione<br />
di ciò che altri ci hanno fatto subire. Non serve più domandarci chi siamo,<br />
quanto valiamo, che cosa siamo chiamati a fare.”<br />
Difficilmente la diffusione di questo coraggioso film, prevista su FR3 Océaniques<br />
in marzo e seguita dall’uscita in sala, passerà inosservata: a maggior ragione<br />
nell’attuale contesto di conflitto. La polemica rischia di gonfiarsi a partire<br />
dalla principale questione lanciata dal film: il sionismo non ha forse in comune<br />
con il socialismo e con diverse forme di nazionalismo la spinta a considerare come<br />
nemici del popolo o traditori tutti coloro che si permettono di criticare la<br />
sua politica, quasi fosse in pericolo la sopravvivenza stessa della nazione?<br />
“C’è una via che conduce dall’umanità alla bestialità, attraverso la nazionalità<br />
costituita come programma. Lungo questa via il popolo tedesco si addentrò fino<br />
all’estremo. Ed è questa via che abbiamo imboccato anche noi, fin dalla<br />
Guerra dei Sei giorni” commenta laconicamente il vecchio Leibowitz, colpevole<br />
forse di riflettere a tutto campo. Il film di Eyal Sivan si articola attraverso sce-<br />
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