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to dal linguaggio televisivo, e sulla sottile censura che veicola si era a<br />

suo tempo soffermato Bruno Bettelheim; inutilmente, a quanto pare),<br />

l’“evento centrale” della storia dell’umanità, l’“irruzione del male”, il<br />

“silenzio di dio”. In realtà: la colpa mai espiata, il debito – in altri termini<br />

– inestinguibile, perché contratto sulle generazioni future... E<br />

persino da chi non c’era, a favore di chi non c’era. È davvero a questo<br />

che servono monumenti, cerimonie, richieste di un’espiazione che sappiamo<br />

impossibile? La domanda rischia di portarci a un livello esterno,<br />

mentre Sivan mantiene ferma la questione e la ributta al suo interno –<br />

aiutato da Yeshayahu Leibowitz che sostiene che lo sterminio, mentre<br />

è un problema per gli altri, non può esserlo per le vittime –, lavorando<br />

sull’effetto che questa pratica di memoria ha sulla costruzione continua<br />

e sul continuo sviluppo dell’identità israeliana e, di conseguenza,<br />

di un particolare modo di sentirsi, di dirsi e forse anche di essere<br />

“ebreo”, nell’accezione sartriana, in un mondo che gli si dichiara, o che<br />

crede, radicalmente ostile.<br />

Ogni anno, a primavera, in Israele si succedono quattro importanti ricorrenze:<br />

Pesach, la Pasqua ebraica – la festa dell’ordine di cui parlava<br />

Kushner – in cui si ricorda, mangiando pane azzimo per una settimana,<br />

la fuga degli ebrei dall’Egitto al seguito di Mosè e la conseguente liberazione<br />

dalla schiavitù; il giorno della commemorazione delle vittime del<br />

genocidio nazista; il giorno in cui, invece, si piangono i morti dello<br />

Tsahal, l’esercito israeliano; e, infine, la festa dell’indipendenza, per ricordare<br />

la proclamazione dello Stato d’Israele il 14 maggio del 1948, alla<br />

scadenza del mandato britannico sulla Palestina. In apertura di Izkor<br />

veniamo informati che il lavoro è stato girato esattamente in questo periodo,<br />

nel 1990. È la prima, importante scelta di campo; forse è anche<br />

quella decisiva. La seconda scelta, non meno decisiva, è una domanda.<br />

“Questo film bisogna farlo?” chiede Sivan a Leibowitz. “Parola forte,<br />

‘bisogna’” risponde il professore. La critica slitta quindi dall’imperativo<br />

del titolo Izkor (“ricorda!”, “ricorda o Lui si ricorderà”), al dubitativo:<br />

(forse) bisogna. Che cosa, bisogna? Ricordare? Girare? “‘Bisogna’ è una<br />

parola molto forte”, eppure sì, rimarca Leibowitz, “bisogna, tutte queste<br />

cose bisogna dirle, in tutti i modi possibili. La verità è che molti – è<br />

un fatto, insisto su questo – praticamente in ogni campo, molti capiscono<br />

queste cose, dentro di sé... Su che cosa si basa la nostra educazione?<br />

Dove porta? La questione si può forse riassumere così: è un’educazione<br />

alla schiavitù, schiavitù della mente, dove la sottomissione all’autorità si<br />

presenta come l’essenza dell’umanità e dell’ebraicità”.<br />

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