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mo numero è stato dedicato al tema dell’esilio, Amira Hass, corrispondente<br />
nei Territori occupati, senza fare alcun riferimento specifico a<br />
Leibowitz presenta un’idea particolarmente importante: sostiene che<br />
non bisogna continuare gli studi sulla shoah perché è inutile cercare un<br />
senso per il presente in una situazione in cui ogni senso è negato. E vede<br />
la stessa esigenza anche dal lato dei palestinesi, che a loro volta tendono<br />
a riprodurre un’analoga posizione di vittima invece di proporsi come<br />
soggetti attivi. Hass pone la seguente domanda: “Che cosa deve cambiare<br />
nella strategia di resistenza palestinese, considerando che un<br />
gruppo oppresso non si limita a subire ma è anche agente del proprio<br />
destino? Non basta essere vittima, bisogna diventare soggetto della propria<br />
fede e della propria vita. Sono stanca dei discorsi vittimistici”.<br />
Una frase di Leibowitz che mi tocca da vicino è: “La sofferenza subita<br />
può legittimare la sofferenza inflitta?”. Essere stati oggetto di sofferenza<br />
non impedisce di diventare soggetto di sofferenza altrui. Non si<br />
tratta di una relazione meccanica, eppure sappiamo che essere stati oggetto<br />
di violenza non impedisce a nessuno di diventare a sua volta violento,<br />
anzi: se pensiamo alle situazioni individuali, molto spesso i bambini<br />
abusati diventano genitori maneschi. Un’altra delle frasi di Leibowitz<br />
viene dal drammaturgo austriaco Franz Grillparzer: “Dall’umanità,<br />
attraverso la nazionalità, alla bestialità”. A Leibowitz questa frase<br />
piace, per la sua densità e laconicità, e la ripete ben due volte nel film.<br />
Proviamo a riflettere su questa affermazione: dice che se si riduce il quadro<br />
di riferimento e si passa dall’intera umanità alla nostra nazione,<br />
escludendo gli altri gruppi, questi non godranno più di uno statuto pari<br />
al nostro. Potenzialmente potranno essere ridotti allo stato animale e diventare<br />
oggetti di violenza legittima. Quindi è nel passaggio da umanità<br />
a nazionalità che risiede il pericolo che può condurre a considerare gli<br />
esseri umani come fossero animali.<br />
Di Leibowitz voglio citare un’ultima frase sul passato che lui stesso<br />
ben sottolinea. Pur non invitando a ignorarlo, ci ricorda che “il passato<br />
può essere vittima di molteplici usi, tra cui l’allontanarci dal presente o<br />
il celare il presente”. Rievocare il passato non è una giustificazione, bisogna<br />
sempre domandarsi a che fine lo si ricorda: per gettare luce sul<br />
presente o per nascondere ciò che accade?<br />
Accantono ora il film per parlare più in generale della memoria: credo<br />
che rievocare il passato sia inevitabile e auspicabile, perché il passato<br />
è fortemente responsabile della nostra identità, di ciò che siamo. Questa<br />
constatazione non è però una raccomandazione: si può costruire la propria<br />
identità in termini positivi o negativi e sapere che il passato è neces-<br />
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