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– la Route 181 – che in realtà non esiste. 181 si riferisce alla Risoluzione delle<br />

Nazioni Unite del 29 novembre 1947, che che avrebbe dovuto dividere la Palestina<br />

in due Stati e che, come molte altre, rimase inattuata.<br />

Durante il viaggio si susseguono gli incontri: israeliani e palestinesi che raccontano<br />

la loro idea di Stato rievocando il passato, facendo leva sull’ideologia, credendo<br />

nel futuro. Un coacervo di voci e di volti che testimoniano, nonostante le<br />

lacrime, le urla e gli odi, il desiderio di trovare un terreno d’incontro e la possibilità<br />

di un dialogo.<br />

Puramente virtuale, la frontiera fissata dalla Risoluzione 181 non ha per questo<br />

meno valore agli occhi di Eyan Sivan e Michel Khleifi. Cartina alla mano, la percorrono<br />

per raccogliere immagini e testimonianze, lontano dagli sguardi più<br />

consueti, dai lanciatori di pietre e dai soldati di Tsahal, dove le telecamere non<br />

mancano mai. Una parte importante dell’immaginario palestinese e israeliano<br />

s’inscrive in queste frontiera virtuale e negli avvenimenti successivi: territori<br />

conquistati per alcuni, territori da cui fuggire per altri. Il “diritto al ritorno”,<br />

uno dei problemi oggi evocati nel Patto di Ginevra, nasce da qui. C’è l’immaginario<br />

ma c’è anche la memoria di qualche testimone incontrato dai registi: la<br />

memoria ebraica dei kibbutz sotto mandato britannico, la memoria palestinese<br />

della resistenza o dell’esilio. La memoria... Oppure l’assenza di memoria, resa<br />

evidente da un gruppo di collegiali israeliani interrogati sulla storia della Palestina.<br />

Ciò che colpisce in Route 181 è la qualità, la singolarità della parola raccolta<br />

dalle labbra di donne e uomini di condizione ed età differente, di persone<br />

senza nome filmate nella loro vita quotidiana.<br />

Nessun commento da parte dei registi, all’infuori di qualche intervento in voce<br />

off (tutti necessari?) di Eyal Sivan che, di tanto in tanto, cerca di convincere alcuni<br />

dei suoi compatrioti dell’assurdità implicita nella tesi ufficiale, legata alla<br />

formula “un popolo senza terra su una terra senza popolo”. Durante i due mesi<br />

di riprese, i due registi hanno saputo far emergere e poi radunare parole essenziali,<br />

rivelatrici nella loro banalità. Parole, immagini in cui si inscrivono o da cui<br />

sono legate, modalità associativa: tutto concorre a fare di Route 181 un documentario<br />

di testimonianza all’altezza dei classici di questo genere. Domina il<br />

piano fisso, che nella sua staticità non fa perdere nulla delle parole... o dei silenzi,<br />

degli sguardi, dei gesti. Le carrellate dall’automobile, le pause tra le sequenze<br />

tese e i legami logici all’interno del racconto concorrono a svelare luoghi e<br />

ambienti. C’è dolcezza nell’alternanza fra le sequenze che suggeriscono sogni<br />

di pace (la raccolta delle olive, un coloratissimo matrimonio palestinese) e quelle<br />

che riportano al conflitto (carri armati, rovine, fili spinati, check-point, muri<br />

che la macchina perlustra instancabilmente nella loro massa astratta fino a scoprirvi<br />

operai – non ebrei! – al lavoro...).<br />

Visita guidata a un museo israeliano dei pionieri, operai asiatici in un cantiere,<br />

turisti americani venuti a sostenere l’insediamento di una colonia (in modo surreale:<br />

piantando ulivi), manifestazioni di pacifisti israeliani, scontri verbali a un<br />

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