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Segni di smarrimento<br />
Marco Dotti<br />
Dal buon uso dell’oblio alla schiavitù del ricordo. Forse potrebbe sintetizzarsi<br />
così la parabola, o meglio: il lento declino storico sottinteso dalle<br />
scene, inutilmente rigettato dai discorsi e involontariamente richiamato<br />
in causa dalle voci che corrono dentro i novantasette minuti del<br />
montato di Izkor, les esclaves de la mémoire di Eyal Sivan.<br />
Tema molto delicato, quello dell’oblio, almeno quanto lo sono quelli<br />
correlativi della memoria e del ricordo in un contesto storicamente,<br />
geopoliticamente e culturalmente sensibile come quello definito dai<br />
confini (non solo territoriali ma anche e soprattutto ideologici e “mentali”)<br />
dello Stato d’Israele. Troppo per non rischiare di toccare corde e<br />
nervi rimasti per tanto tempo inevitabilmente scoperti. Ma, detto ciò,<br />
non si può non constatare che altrettanto grande è il rischio che, nell’assenza<br />
o nell’impotenza di contropartite critiche, una pratica collettiva<br />
di memoria diventi poco più che un esercizio forzato della stessa, un<br />
cerimoniale pubblico di appropriazione o di espropriazione della storia,<br />
e finisca per operare secondo il consueto triplice registro che caratterizza<br />
i fenomeni legati alla produzione di disciplina e censure: in primo<br />
luogo agisce come fattore anestetico, sorta di rumore bianco che,<br />
impercettibilmente, copre ogni voce discorde; secondariamente favorisce<br />
una selezione dei fattori che definiscono natura e sviluppo della me-<br />
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