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paesaggio cicatriziale e agorafobico, manomesso e bellissimo, a poco a<br />

poco capiamo che, se le parole ufficiali ingannano, le parole private e<br />

l’ascolto, soprattutto l’ascolto profondo, possono risanare.<br />

A Parigi una parte della comunità ebraica reagisce al film con una<br />

presa di posizione a dir poco isterica, accusando i registi – in particolare<br />

l’ebreo israeliano Sivan – di antisemitismo. Già, perché, soprattutto in<br />

Europa, è considerato offensivo lasciar parlare i fatti che hanno portato<br />

al presente di Palestina-Israele. Il solo tentativo di rivelare, attraverso le<br />

voci e le storie di chi ci abita, che Israele è un paese nato da una guerra<br />

di occupazione che dura ancora oggi, ma anche che è un paese etnicamente<br />

variegato, dove una buona parte della popolazione ebraica è di<br />

origini arabe e non ha nulla a che fare con il sogno sionista né con la<br />

shoah, costituisce una grave infrazione narrativa al “discorso ufficiale”.<br />

Come Sivan ha mostrato approfonditamente in Izkor, les esclaves de la<br />

mémoire, un documentario del 1991, quando un paese deve farsi nazione<br />

e Stato la Memoria non può infatti essere affidata ai ricordi personali<br />

e al racconto individuale. Ricordi e racconti soggettivi sono per loro natura<br />

troppo pieni di contraddizioni e di ambivalenze per non essere inevitabilmente<br />

nemici dell’unificante narrazione nazionale. Il paradosso o<br />

l’anomalia di Israele consiste proprio nell’avere voluto dare identità e<br />

memoria a un intero popolo costringendolo a dimenticare o a fare propri<br />

i ricordi altrui. Da qui l’importanza assoluta dell’operazione cinematografica<br />

di Khleifi-Sivan: mettere l’uomo e la donna della strada davanti<br />

a un obiettivo filmico che faccia loro da specchio, dando loro il tempo<br />

della parola e del silenzio necessario ad ascoltarsi parlare, a riflettere su<br />

quel che si dice.<br />

I due registi – mai presenti in scena se non attraverso il loro interrogare,<br />

chiedere, sottolineare una contraddizione, aspettare – si alternano,<br />

passando senza soluzione di continuità dall’arabo all’ebraico, dallo<br />

humour morbido e accattivante di Khleifi alla frontalità di Sivan,“un<br />

po’ troppo israeliana” – secondo la scherzosa e amichevole definizione<br />

che ne dà il suo compagno di viaggio. Il montaggio, mai intrusivo o manipolatorio,<br />

crea un flusso narrativo che asseconda il viaggio nella geografia<br />

frammentata della Palestina e nel tempo imploso di una memoria<br />

negata e in cerca di sé.<br />

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