Minori l’oltraggio infinito
Numero 58 - Scuola di Giornalismo - Università degli Studi di Salerno
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18 Domenica 25 marzo 2012 SPETTACOLI<br />
In scena al teatro Mercadante di Napoli “Memorie di una schiava”:<br />
una donna sudafricana racconta la sua prigionia e la volontà di riscatto<br />
Nel baobab, la voce senza nome<br />
Il buio avvolge la scena come una<br />
spessa coltre. E il silenzio è quasi<br />
irreale. Una luce soffusa piano<br />
piano rischiara lo spazio, mostrando<br />
l’interno di un baobab: la<br />
sua corteccia è il rifugio di qualcuno.<br />
Non si capisce ancora se si<br />
tratta di un essere umano o di un<br />
animale. Alterna movenze leggiadre<br />
a movenze selvagge. Ma il<br />
volto, sebbene sia coperto come il<br />
corpo da uno spesso strato di<br />
argilla, è quello di una donna. Il<br />
nome di questa figura femminile<br />
ci è sconosciuto. Eppure la donna<br />
che ha quasi perso sembianze<br />
umane ha ancora voce. Vuole raccontare<br />
la sua storia a chiunque<br />
abbia voglia di sentirla.<br />
In scena al ridotto del teatro<br />
Mercadante di Napoli, “Memorie<br />
di una schiava”, tratto dal racconto-monologo<br />
della scrittrice sudafricana<br />
Wilma Stockenstrom,<br />
“Spedizione al baobab”. Il libro<br />
scritto in afrikaans, la lingua di<br />
origine olandese parlata dalle<br />
comunità “bianche” dell’Africa<br />
meridionale, è tradotto in italiano<br />
da Susanna Basso. Lo spettacolo,<br />
prodotto da La Bazzarra, prende<br />
forma nell’adattamento teatrale e<br />
nella regia di Gigi Di Luca.<br />
La protagonista, l’attrice Pamela<br />
Villoresi, indossa i panni di una<br />
schiava “senza nome”, in una<br />
performance che lega in maniera<br />
indissolubile gestualità e parola.<br />
Accompagnano l’ascolto, le<br />
intense, sensuali e a volte dure<br />
note dal vivo del musicista<br />
maliano Baba Sissoko, discendente<br />
di una grande dinastia di<br />
musicisti africani “Griots”.<br />
Dall’interno del gigantesco albero<br />
della savana, che ha trasformato<br />
nella sua casa, la schiava ripercorre,<br />
in una serie di flashback a crescente<br />
intensità emotiva, le tappe<br />
della sua vita. “Conosco l’interno<br />
del mio albero come un cieco casa<br />
sua, ne conosco le parti lisce e<br />
ruvide, i rigonfiamenti e le sporgenze,<br />
l’odore, l’oscurità e la grande<br />
fessura di luce, come non ho<br />
mai conosciuto le capanne e le<br />
stanze in cui mi veniva ordinato di<br />
dormire, come si può conoscere<br />
qualcosa che è nostro e nostro<br />
soltanto, la nostra dimora impenetrabile<br />
a chiunque. Posso dire:<br />
questa sono io. Ci sono le mie<br />
impronte. C’è la cenere del mio<br />
fuoco, il mio frantoio. Ci sono i<br />
miei chicchi, i miei reperti”. Inizia<br />
così il racconto poetico dell’io<br />
narrante, del quale non si conosce<br />
il nome, perché commenta con<br />
disillusione: “pronuncio il mio<br />
nome e non significa nulla”. Una<br />
storia di sopraffazione che comincia<br />
per la donna con la sua deportazione<br />
da bambina dal villaggio<br />
natale distrutto dai coloni boeri. E<br />
prosegue con il passaggio da un<br />
padrone a un altro, nella consapevolezza<br />
che, nemmeno per un<br />
istante, potrà assaporare l’anelito<br />
della libertà. Eppure, le violenze<br />
che subisce, i figli nati dal suo<br />
grembo per essere presto sottrattigli<br />
e ridotti in schiavitù, non<br />
bastano ad annullare l’umanità<br />
della donna. Memorie infelici che<br />
si susseguono e provocano nella<br />
protagonista spasmi di dolore fisico,<br />
che Pamela Villoresi riesce a<br />
consegnare agli occhi dello spettatore<br />
in maniera esemplare. La<br />
mimica del volto, le contorsioni<br />
del corpo ci restituiscono quell’immagine<br />
di sofferenza.<br />
“Ho superato l’offesa di non poter<br />
essere umana. E con quella, anche<br />
tutte le brutte visioni di irsute<br />
capanne e di porte socchiuse che<br />
cercano di allettarmi ed entrare<br />
per imprigionarmi, tutte le condizioni<br />
sbagliate, le false vie d’uscita:<br />
perché sono io a determinare l’apparenza<br />
e la realtà”. Infine, anche<br />
la schiava conosce l’amore con il<br />
suo ultimo padrone, un mercante<br />
di spezie: insieme vanno alla<br />
ricerca della loro “Eldorado di<br />
giada”, una terra promessa che<br />
però condurrà ad un destino di<br />
morte per l’uomo.<br />
La storia della donna che potrebbe<br />
essere quella di tante altre<br />
donne, diventa uno spunto di<br />
riflessione: tante piccole gocce di<br />
una realtà e di un tempo che forse<br />
si è fermato. Perché se la schiavitù,<br />
quella ufficiale e legale, è<br />
stata debellata dalla modernità,<br />
persiste in altre forme, magari<br />
latenti, sfuggenti, relegate ai margini<br />
di una società che tenta di<br />
nasconderle perché si vergogna<br />
ma che continuano a dominare la<br />
vita di alcuni esseri umani e<br />
soprattutto delle donne.<br />
Pagina a cura di<br />
IMMA SOLIMENO<br />
«Una storia coinvolgente e<br />
la collaborazione con persone<br />
di grande talento sono<br />
gli ingredienti del successo<br />
di “Memorie di una<br />
schiava”. In Italia non esiste<br />
una cultura del merito. E<br />
invece noi ci siamo incontrati<br />
e ci siamo scelti proprio<br />
sulla base del merito».<br />
Pamela Villoresi si<br />
esprime così quando parla<br />
della messa in scena<br />
dello spettacolo.<br />
«Questo è un racconto universale,<br />
di tutte quelle persone,<br />
donne e uomini, che<br />
la storia ha reso senza<br />
nome. E d’altra parte, non<br />
si tratta solo di restituire un<br />
grido di sofferenza: nell’opera<br />
si respira la poesia,<br />
persino la gioia e la voglia<br />
di rinascita. È questa la<br />
capacità dell’arte di restituire<br />
l’orrore e poi pacificare<br />
gli animi». Un’arte, quella<br />
teatrale, che per attirare<br />
e coinvolgere ha bisogno di<br />
interpreti che sappiano<br />
restituire le atmosfere della<br />
narrazione e i meccanismi<br />
interiori del personaggio.<br />
«L’interpretazione di un<br />
ruolo non è solo un atto<br />
tecnico o una questione di<br />
istinto – spiega Pamela<br />
L’attrice Pamela Villoresi<br />
“Una storia<br />
universale”<br />
Villoresi – Uno strumentista<br />
suona bene se conosce<br />
il suo strumento. La<br />
disciplina al servizio del<br />
talento. Interpretare la<br />
schiava del racconto è stato<br />
proprio questo».<br />
Un personaggio a tutto<br />
tondo, sottomesso psicologicamente<br />
e fisicamente,<br />
ma la cui fiammella vitale<br />
ancora non si è spenta. È<br />
evidente nei gesti ma soprattutto<br />
nel linguaggio:<br />
«La schiava possiede un linguaggio<br />
quasi colto, ha<br />
imparato il gusto della conversazione<br />
– racconta l’attrice<br />
– grazie al suo ultimo<br />
padrone che aveva creato<br />
un salotto letterario. Sembra<br />
strano per qualcuno che<br />
ha deciso di trovare rifugio<br />
in un albero e trasformandosi<br />
essa stessa in un pezzo<br />
di quercia, di natura».<br />
Complesso restituire il<br />
carattere e il corpo di una<br />
donna che è al contempo<br />
raffinata e primitiva. Eppure,<br />
l’attrice ci è riuscita,<br />
restituendoci l’immagine<br />
di un passato che forse è<br />
ancora presente.<br />
«Questo spettacolo affonda<br />
le radici nella mia passione<br />
verso i Sud del mondo. Con<br />
“Memorie di una schiava”,<br />
continua il mio percorso<br />
registico teso a restituire in<br />
chiave contemporanea, attraverso<br />
la parola, la musica<br />
e l’immagine, le identità<br />
e le espressioni popolari di<br />
etnie e culture dei Sud del<br />
mondo». Gli spettacoli realizzati<br />
dal regista Gigi Di<br />
Luca hanno un comune<br />
denominatore: la volontà di<br />
restituire all’immaginario<br />
dello spettatore un’identità<br />
“meridionale”, che tanto è<br />
più cara quanto più ci appartiene.<br />
Si pensa alla messa<br />
in scena de “La casa di<br />
Bernarda Alba” di Federico<br />
Garcia Lorca, fino ad arrivare<br />
a “La cantata per la<br />
festa dei bambini morti di<br />
mafia” di Luciano Violante<br />
e il “Mio cuore è nel Sud” di<br />
Giuseppe Patroni Griffi.<br />
Questa volta il protagonista<br />
assoluto del testo teatrale è<br />
il Sud Africa, con le sue<br />
contraddizioni e le sue speranze,<br />
con il suo terribile<br />
passato di schiavitù e con la<br />
sua lotta per rialzarsi.<br />
«”Memorie di una schiava”<br />
è un viaggio che, a partire<br />
Il regista Gigi Di Luca<br />
“Nessuna<br />
retorica”<br />
dalla sofferenza, tende verso<br />
il segno opposto, la leggerezza<br />
– spiega il regista – Il<br />
mio modo di fare teatro si<br />
pone l’obiettivo di “far sentire”,<br />
nel bisogno di raccontare<br />
forti emozioni». Un ruolo<br />
di primo piano è stato affidato<br />
da Gigi Di Luca alla<br />
musica: «Ho immaginato un<br />
percorso dove il suono fosse<br />
parte narrante. Alla musica<br />
il compito di restituire alla<br />
schiava quelle sonorità che<br />
la vita le aveva sottratto».<br />
Eppure, la trasposizione teatrale<br />
di un romanzo scritto<br />
in “afrikaans” non è stata un<br />
percorso privo di ostacoli.<br />
Racconta il regista: «Volevo<br />
che nel mio spettacolo non<br />
ci fossero retorica, banalità e<br />
luoghi comuni. Anche per<br />
questo, non ho scelto come<br />
interprete una donna africana.<br />
Non volevo localizzare<br />
la storia, ma restituire un’idea<br />
di uguaglianza e di<br />
appartenenza comune».<br />
D’altro canto, nel racconto<br />
di Stockenstrom, la schiava<br />
non ha nome perché «è<br />
tutte le schiave e nessuna».