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luglio agosto - Club Alpino Italiano

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LA RIVISTA 4 | 2010 21<br />

» "La sposa dell'aria",<br />

edito da Feltrinelli,<br />

l'ultimo libro di Marco<br />

Albino Ferrari.<br />

dalla cultura del momento.<br />

Le montagne<br />

sono immagini vuote<br />

(o meglio simboli),<br />

sulle quali proiettiamo<br />

le nostre aspettative.<br />

Sono appunto “simboli”<br />

cioè luoghi dove il<br />

materiale e l’immateriale<br />

convivono.»<br />

Facciamo un salto indietro<br />

nel tempo. Nel<br />

1999, per Corbaccio,<br />

esce il suo libro “Il<br />

vuoto alle spalle. Storia<br />

di Ettore Castiglioni”.<br />

Un grande alpinista,<br />

partigiano, morto sul ghiacciaio del Forno ai confini con<br />

la Svizzera. E la montagna non è solo lo sfondo naturale delle<br />

vicende narrate, ma ha un ruolo tragicamente determinante.<br />

«La storia di Ettore Castiglioni è la parabola di un misantropo<br />

riscattato. Castiglioni era un dandy, milanese, altolocato, colto<br />

e solitario, che aveva tagliato i ponti con il mondo. Andava in<br />

montagna per fuggire dalla mediocrità che lo circondava (siamo<br />

negli anni Trenta), criticando aspramente la retorica vitalistica<br />

che esaltava gli alpinisti indottrinati dal regime. Poi la svolta.<br />

Quando vide che grazie alle sue doti di alpinista avrebbe potuto<br />

dare la vita a chi fuggiva dall’Italia sconvolta della guerra, iniziò<br />

ad amare gli altri. Le stesse montagne che fino a quel momento<br />

rappresentavano la fuga dagli uomini, erano diventate la soglia<br />

oltre la quale si poteva dare la vita agli uomini. Non si è risparmiato.<br />

Ed è morto.»<br />

Nel 2002, sempre per Corbaccio, pubblica “Terraferma”. Anche<br />

in questo caso, è la natura a determinare le coordinate di una<br />

vicenda storica ambientata nella Terra del Fuoco.<br />

«A metà Ottocento la Terra del Fuoco era ancora un luogo da<br />

“evangelizzare”. Ci avevano messo gli occhi anche i missionari<br />

anglicani. Partiti da Plymouth e attraversato l’oceano, approcciavano<br />

le popolazioni Yagan brandendo la Bibbia e alzando<br />

canti sacri nella speranza di essere accolti. Venivano sterminati.<br />

A ondate. Ma a quei missionari il rischio non faceva paura, anzi<br />

pensavano che la “bella morte”, lontano da casa, «cantando inni<br />

al Signore» avrebbe dato senso ultimo alla loro esistenza. Erano<br />

estremisti romantici. Riuscì nell’intento un missionario sui generis,<br />

Thomas Bridges, che prima di tentare il passo decise di imparare<br />

lingua e costumi locali. Ebbe perciò un approccio morbido.<br />

Alla fine venne accettato, ma il contatto fu fatale per gli stessi<br />

Yagan. Thomas Bridges portava con se i germi dell’influenza che<br />

avrebbero decimato la popolazione vulnerabile alla nuova malattia.<br />

“Terraferma” è la storia di un dialogo impossibile.»<br />

Naturalmente l’alpinismo ha un ruolo centrale nella sua<br />

avventura letteraria. Nel caso di “Frêney 1961 – Tragedia sul<br />

Monte Bianco” (Corbaccio), la montagna mette sul piatto tutta<br />

la potenza degli elementi naturali, di fronte ai quali l’uomo<br />

è poca cosa.<br />

«“Frêney 1961” uscì per la prima volta nel 1996 presso l’editore<br />

Vivalda. E continua ad essere ristampato (l’anno scorso da Corbaccio).<br />

Si può dire che sia ormai diventato un classico della letteratura<br />

di montagna. La forza del libro sta nella storia, una storia<br />

esemplare che ci restituisce il senso dell’alpinismo classico nei suoi<br />

ultimi bagliori. Una storia di cinquant’anni fa, ma che ci sembra<br />

ancora più lontana, persa in un’Italia ingenua, l’Italia del Boom<br />

economico, che rimase incollata alla radio per conoscere gli esiti di<br />

ciò che accadeva sul Monte Bianco.»<br />

In “Dolomiti, rocce e fantasmi” (Excelsior 1881 editore), indaga<br />

sulla perdita di un mondo che non potrà mai più tornare e propone<br />

il tema del “tempo circolare”.<br />

«Nelle società tradizionali delle Alpi ciò che scandiva il tempo era il<br />

calendario liturgico: un vero Codice dell’Ordine. E i giorni vivevano<br />

come ricorrenze, in un immutabile ciclo dell’esistenza. Al centro<br />

c’era l’idea del tempo circolare: ogni giorno gemello al giorno corrispondente<br />

dell’anno precedente, scandito dal nome di un santo.<br />

In questa idea del tempo, non come flusso di un costante progresso<br />

ma di una circolarità che tende a ripetersi sempre uguale, è posta<br />

in primo piano la ricerca di stabilità che sfocia, per esempio, nella<br />

conservazione di un equilibrio duraturo con la montagna. Quello<br />

non è un tempo che corre come il nostro, ma è un tempo che ricorre.<br />

Penso però che capire questo concetto aiuti a vedere la montagna<br />

come è stata per secoli: chi ha raccontato bene tutto questo è<br />

l’etnografo autodidatta Giuseppe Šebesta, fondatore del Museo di<br />

San Michele all’Adige.»<br />

Perché la narrativa che ha per protagonista la montagna fatica<br />

a trovare lettori che non siano per forza appassionati di<br />

alpinismo?<br />

«Parliamo di un genere spesso autoreferenziale. C’è una produzione<br />

molto vasta di libri scritti da alpinisti che sentono l’urgenza di raccontarsi,<br />

scrivere diventa per loro quasi una necessità: così, però, sì<br />

rischia di scrivere più per sé stessi che per il lettore.»<br />

Come ogni alpinista, anche lei ha una personalissima hit parade<br />

delle montagne preferite. Nel suo libro “In viaggio sulle Alpi.<br />

Luoghi e storie d’alta quota” (Einaudi) traccia il ritratto delle<br />

dieci vette più importanti dell’arco alpino.<br />

«Come ho detto mi interessa la simbologia legata alla montagna.<br />

Ogni montagna è portatrice di qualcos’altro, qualcosa che sta fuori<br />

da essa, che noi le attribuiamo.»<br />

Nei suoi libri la visione che i personaggi hanno della montagna<br />

è duplice: di attrazione o di repulsione. È una metafora per<br />

la vita?<br />

«Questa duplicità tra attrazione e repulsione è alla base del sentimento<br />

moderno che ci lega alla montagna e in generale a tutti<br />

i luoghi selvaggi, oceani, vulcani, deserti. È l’estetica del sublime.<br />

L’alta montagna è inospitale, ostile, evoca il pericolo, eppure<br />

la guardiamo sedotti. Ci fa paura ma la cerchiamo. In questo senso<br />

la montagna diventa il mezzo che ci fa scoprire l’ebbrezza di perdersi<br />

nel tutto.» «

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