luglio agosto - Club Alpino Italiano
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LA RIVISTA 4 | 2010 37<br />
Sui giornali del tempo, le cronache raccontano del ritrovo a Milano,<br />
con benedizione delle corde in piazza del Duomo...<br />
«Milano fu punto di partenza e arrivo delle Cento donne. Dopo la<br />
neve e il ghiaccio ci ritrovammo ancora in città per il cocktail finale.<br />
Dell’andata invece non ho ricordi diretti, io lavoravo in Fiat<br />
e con le mie compagne ci unimmo alla spedizione dopo il lavoro,<br />
direttamente a Gressoney».<br />
Cento donne assieme in albergo che attendono un evento tanto<br />
importante, come avete vissuto la vigilia della salita?<br />
«C’era un’atmosfera frizzante, chiacchiere e saluti non ce li siamo<br />
fatti mancare! Il mattino dopo invece cominciammo con una cerimonia<br />
a cui partecipò anche la madre di Ettore Zapparoli, l'alpinista<br />
scomparso nel 1951 lungo la parete Est del Rosa: ci consegnò<br />
una corona di fiori da lanciare nel vuoto».<br />
Poi pronte via. Come erano le condizioni meteo, le Cento donne<br />
partirono con il bel tempo?<br />
«Sì, il 26 <strong>luglio</strong> il cielo era sereno. Non ci fu nessuna difficoltà,<br />
nemmeno in quanto ad allenamento o mal di quota. Di pomeriggio<br />
ci ritrovammo alla Capanna Gnifetti, dove la sera ci stipammo<br />
anche in 16 in camere da 6, per una notte insonne. Alle tre<br />
del mattino cominciammo ad alzarci, tanta era la voglia di respirare<br />
aria fresca».<br />
Durante la salita avete dovuto fare i conti con la rivalità<br />
femminile?<br />
«No, assolutamente! Eravamo unite da un sentimento di solidarietà<br />
femminile, che ci fece raggiungere la vetta senza tensioni. Fu<br />
tutto davvero bello, il Rosa era carico di neve ma il percorso era<br />
ben tracciato da bandierine rosse a gialle che segnalavano i crepacci<br />
e indicavano anche le due diverse piste, una per la salita e<br />
una per la discesa. Fu un’impresa scandita solo dall’impegno e<br />
dalla passione. Le cronache del tempo parlarono dell’impresa con<br />
toni compiaciuti, ma a mio parere nel nostro avanzare non ci fu<br />
nulla di civettuoso: salivamo concentrate e una sola una cordata<br />
dovette desistere, a riprova che non si trattava di una scampagnata<br />
del gentil sesso».<br />
Quale fu l’emozione di arrivare in vetta?<br />
«Fu una sensazione bellissima. Il panorama era meraviglioso, il<br />
profilo delle montagne si vedeva nitido, la vetta del Gran Paradiso<br />
e del Grand Conbin sembravano così vicine».<br />
Quanto ha contato l’essere tutte donne?<br />
«Penso molto. Siamo state la cassa armonica che amplifica il messaggio<br />
musicale delle vette. Silenzi, grandi spazi. Le donne hanno<br />
una sensibilità maggiore, anche nell’andare in montagna: arrivare<br />
in cima, per noi Cento donne, ha significato ben più che il semplice<br />
portare a termine una prestazione».<br />
C’è un momento della salita che ricorda, in particolare?<br />
«Sì, ed è legato proprio a Zapparoli. Quando abbiamo lanciato la<br />
corona di fiori è stato davvero molto commuovente».<br />
Arrivate ai 4.554 metri d’altezza della Capanna Margherita, un<br />
tè caldo e poi di nuovo giù per il ghiacciaio…<br />
«In vetta lo spazio era talmente poco che non potevamo trattenerci<br />
un minuto in più dello stretto necessario. Sulla via del rientro<br />
poi il tempo si mise a peggiorare, così scendemmo veloci fino al<br />
Rifugio Vigevano».<br />
Fra alpiniste, giornalisti e guide alpine sarete stati un gruppo<br />
numeroso. Chi si occupò dell’organizzazione?<br />
«Sostanzialmente fece tutto Campiotti, con l’aiuto del CAI di Menaggio.<br />
Nei primi mesi del 1960 erano più gli scettici che i possibilisti,<br />
in pochi scommettevano sull’impresa, in tanti non mancavano<br />
di sottolineare i rischi di una salita resa difficoltosa dalle<br />
tante cordate, per di più femminili. Il CAI di Menaggio credette invece<br />
all’iniziativa e il presidente si adoperò per diffondere comunicati<br />
stampa, attivare le donne e preparare il tè caldo alla Capanna<br />
Margherita».<br />
E il <strong>Club</strong> <strong>Alpino</strong>, che ruolo ebbe?<br />
«Inizialmente non sostenne l'iniziativa, così come i <strong>Club</strong> alpini<br />
esteri, anche perché c’era la questione degli sponsor e ad alcuni la<br />
salita appariva al più un’impresa pubblicitaria».<br />
Gli sponsor vi fornirono l'equipaggiamento?<br />
«No, sarebbe stata una gran fortuna! Ci diedero solo le corde, quelle<br />
sì. Le fornì la Snia Viscosa e furono consegnate alle capo cordata<br />
da Riccardo Cassin in persona. Per il resto la Colmar donò i numeri<br />
di riconoscimento, niente di più. A distanza di anni, le corde<br />
in kevlar le ricordo ancora, così leggere rispetto ai vecchi canaponi<br />
a cui eravamo abituate».<br />
Dalle scalate sul Monviso ai ghiacci del Ruitor e del Bianco, dalle<br />
mete del Caucaso alle Ande, dall’Himalaya all’Ararat. Lei ha<br />
all’attivo quasi otto decenni di montagna eppure, fra le tante<br />
imprese, sembra che l’epopea delle “Cento donne sul Rosa” le<br />
sia particolarmente cara. A cinquant’anni di distanza, cosa rimane<br />
di quella spedizione?<br />
«Oltre ai ricordi e alle emozioni, le amicizie, e lo dico senza avere<br />
dubbi. Oltretutto fu proprio in quella occasione che conobbi la<br />
mia compagna di alpinismo Carla Maverna: saliva in un gruppetto<br />
davanti al nostro, nella cordata numero 6. Mi piace ricordare<br />
che il legame con Carla, è nato sul Rosa. Fra tutte noi partecipanti<br />
sono certa sia poi rimasto un sentimento comune. Due anni fa<br />
ad esempio, ero a Macugnaga per la cerimonia di sepoltura delle<br />
spoglie di Zapparoli e lì ho incontrato un'alpinista di una cordata<br />
vicina, Enrica Walter: l’abbracciarsi è stato immediato e naturale».<br />
Serena e ancora in vena di imprese tanto che all’intervista si<br />
presenta dopo aver guidato 600 chilometri in macchina da Monaco<br />
di Baviera, dove vive, a Torino, Irene Affentranger finisce<br />
il racconto con un aneddoto che ha tutto il sapore dell’avventura<br />
che non finisce.<br />
«Rientrate a Torino, accompagnai le mie compagne a casa. Ero<br />
stanca, convinta di aver portato a termine la scalata e le sue fatiche.<br />
Invece fu proprio allora che la macchina mi lasciò a piedi, era<br />
finita la benzina! Mi toccò riprendere la marcia, con un’ulteriore<br />
camminata per le strade della città. La mattina dopo tornai sui<br />
miei passi, questa volta con una tanica di benzina per l’auto. Poi<br />
potei andare al lavoro, finalmente». «