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Andrea Lo Faro - il blog del Lofa

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62 <strong>Andrea</strong> <strong>Lo</strong> <strong>Faro</strong><br />

Ventitre<br />

di Masco<br />

In piedi sotto una pens<strong>il</strong>ina a ripararsi da un freddo <strong>del</strong> tutto inatteso e che,<br />

incurante <strong>del</strong>la logica alternanza <strong>del</strong>le stagioni, ha trasformato i giorni più<br />

miti di inizio autunno in un saggio <strong>del</strong>l’inverno che è ancora lungi<br />

dall’arrivare. Almeno per <strong>il</strong> calendario. Un libro in mano nell’attesa<br />

<strong>del</strong>l’autobus, gli occhi a scandire parola per parola <strong>il</strong> racconto che fino a<br />

un paio di settimane prima lo entusiasmava come pochi, ma che nel<br />

contingente non riesce a distrarlo dai pensieri che occupano esclusivi la<br />

sua mente. Legge, ma non c’è parola o frase che riesca a sovrastare<br />

l’estenuante sottofondo che risuona nella sua testa: la voce ovattata di un<br />

noto cantante, di cui non ricorda <strong>il</strong> nome, rimbalza da un emisfero all’altro<br />

<strong>del</strong> suo cervello ripetendogli che This is the end, beautiful friend, this is<br />

the end, my only friend, the end. D’altri tempi avrebbe fatto di tutto per<br />

dare un volto a quella voce. E per scoprire <strong>il</strong> titolo di quel brano. Questa<br />

volta no. Questa volta non gli frega proprio un cazzo né di lui, né <strong>del</strong> suo<br />

gruppo e ancora meno di quella maledetta canzone. L’anatema che gli ha<br />

lanciato va ben oltre l’apparenza di un’infausta cant<strong>il</strong>ena e <strong>il</strong> messaggio di<br />

cui si fa portatore gli impone, senza mezzi termini, una scelta: accettarne<br />

le lusinghe o combatterle strenuamente. La consapevolezza <strong>del</strong>la sua<br />

incertezza è più di una mezza risposta e <strong>il</strong> pensiero <strong>del</strong>la resa non lo<br />

spaventa come dovrebbe. E’ di questo che ha veramente paura.<br />

L’autobus arriva e, sebbene fossero già saltate due corse, <strong>il</strong> conducente<br />

spegne <strong>il</strong> motore e si dirige compassato verso <strong>il</strong> chiosco all’angolo <strong>del</strong>la<br />

strada, incurante <strong>del</strong> vociare <strong>del</strong>la gente che aspetta infreddolita da oltre<br />

mezz’ora. Masco sale e, nonostante l’assembramento, trova un seggiolino<br />

libero su cui sedersi. Di fronte a sé un ragazzino sudamericano con due<br />

cuffie enormi alle orecchie, dal volume alto e in parte nascoste da un<br />

cappello di lana a maglie larghe, azzurro, senza visiera; chiude <strong>il</strong> libro, che<br />

comunque non riusciva a leggere, e tira fuori dalla borsa <strong>il</strong> lettore portat<strong>il</strong>e,<br />

cosciente che gli sarebbe servito non tanto per distrarsi, quanto per evitare<br />

<strong>il</strong> fastidioso ronzio hip hop che echeggia intermittente in quell’atmosfera<br />

già di per sé satura di rumori.<br />

John Mayall, la sua personale medicina per i mali <strong>del</strong> cuore, non è efficace<br />

come in tante altre occasioni. Giusto <strong>il</strong> tempo di realizzarlo – <strong>il</strong> piede<br />

immob<strong>il</strong>e nonostante l’assolo di chitarra di Good Times Boogie – che gli<br />

occhi gli si velano di un leggero strato di lacrime: non è per via <strong>del</strong>

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