Abbiamo perso lo smalto - Macchina dei Sogni
Abbiamo perso lo smalto - Macchina dei Sogni
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appena lasciato, come una macchina d’epoca sotto un lenzuo<strong>lo</strong>, come<br />
la bottiglia di vino che non osa al<strong>lo</strong>ntanarsi dal suo piede, per l’appunto,<br />
in cerca di coccole, a zampe all’aria, girandosi e rigirandosi, spostata<br />
da chissà quale dispettosa divinità pagana. Vuoto, come quelle confezioni<br />
vuote di cheeseburger che riempiono l’inadeguato cestino alle<br />
sue spalle. Accartocciato.<br />
Un so<strong>lo</strong> breve tratto del suo corpo, più per necessità che per scelta,<br />
sembra essere su quella panchina, in quel<strong>lo</strong> spiazzo di quella città. Vigile.<br />
Il braccio destro, obliquo e teso, nervoso, preso com’è a sorreggere il<br />
peso del resto del corpo, tutto.<br />
«Devo lavarmi la faccia. Mi sento impiastricciato e ho la nausea.»<br />
Il braccio si piega lento, un ango<strong>lo</strong> vecchio. Il peso bascula come un<br />
galleggiante di cent’anni, i piedi si riaccendono. Quella cartaccia abbandonata<br />
e biodegradabile si è risvegliata. Si alza facendo leva sulle<br />
braccia e barcolla per un attimo. Per un attimo il suo naso sembra essere<br />
irresistibilmente affascinato dal puzzo del pavimento. Penso il<br />
peggio, ma non dovrei. L’uomo si raddrizza di scatto, come ripreso da<br />
un caporale severo e perverso e si avvia, a passo incerto, verso la fontanella<br />
dall’altra parte del<strong>lo</strong> spiazzo. Lo seguo con <strong>lo</strong> sguardo. È mio.<br />
«Che bellezza l’acqua, oddio che meraviglia!»<br />
Il barbone che ha catturato il mio sguardo si rinfresca lavandosi la faccia<br />
con l’acqua ghiacciata della fontanella, se la passa in bocca più<br />
volte, in parte la sputa, il resto <strong>lo</strong> inghiotte. Rivoli scendono dietro il<br />
col<strong>lo</strong>, insaponandosi con <strong>lo</strong> sporco della camicia di flanella sgualcita.<br />
Il suo puzzo arriva fino a me che <strong>lo</strong> guardo da almeno una decina di<br />
metri di distanza. I capelli unti e crespi, dove la vecchiaia fatica a prender<br />
posto, tanto è la sozzura di quella testa. È una meraviglia. Sono<br />
sulla jeep di qualche guardiacaccia, sto vivendo l’avventura di un improbabile<br />
safari all’italiana e osservo eccitata, attraverso le lenti di un<br />
cannocchiale, un esemplare raro. Un animale, che se esiste, avrà pure<br />
una qualche sorta di senso. Voglio lasciargli qualcosa di me. Prendo<br />
manciate di secondi e poi ecco, mi strappo le unghie finte, rosse, del<br />
mio migliore <strong>smalto</strong>. Ne prendo una, mi gratto il naso. Sono simpatiche,<br />
grottesche, queste unghie finte. Siamo finti. Riflessi di cera, manichini.<br />
Eppure qualcosa gira. Le raccolgo, le metto nel palmo della<br />
mano sinistra e chiudo il tutto, senza fretta. Osservo le unghie col<strong>lo</strong>se,<br />
quelle vere, devo smetterla di mangiarle, sono rovinate e inquietanti.<br />
Mi avvicino. Lui non si accorge di nulla. Sono la sua ombra sbagliata<br />
> :-<br />
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