Abbiamo perso lo smalto - Macchina dei Sogni
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Aspettando 09<br />
di Claudia Redaelli<br />
> Libro con dedica -caril<strong>lo</strong>n:-<br />
Stavo seduta su una sedia nell’enorme sala d’attesa dell’aeroporto già<br />
da un po’, era tarda mattinata, sole splendente fuori e climatizzazione<br />
che manteneva una temperatura stabile dentro.<br />
A volte, quando la vita si comporta in modo bizzarro, io non so come<br />
reagire, ho bisogno di stare seduta immobile da qualche parte e lasciare<br />
che il mondo corra davanti a me. È un po’ come se dovessi abituarmi<br />
a una nuova condizione, il respiro rallenta e io macino la<br />
bizzarria trasformandola in una nuova normalità. Parola sopravvalutata:<br />
“NORMALE”, che poi ciò che è normale cambia rapidamente<br />
come le foglie sugli alberi, dipende dal luogo e dalle <strong>perso</strong>ne. Questa<br />
mattina è uno di quei momenti di bizzarria immobile.<br />
Un ragazzo con un buffo berretto aveva in parte oscurato la luminosità<br />
che entrava dalla parete a vetri attraverso cui guardavo gli aerei muoversi<br />
silenziosi per attaccarsi o staccarsi dai ponti mobili che li collegano<br />
alle sale d’attesa.<br />
Si chiamava Piero, doveva attendere un paio d’ore il suo aereo e si<br />
stava annoiando.<br />
«Sei sola? Ti ho osservata e sei qui ferma nella stessa posizione da<br />
un po’. Di cosa ti sei fatta questa mattina? Sembri catatonica!» questo<br />
mi disse dopo avermi salutata.<br />
«Leila, mi chiamo così. Non sono sola, mio padre è da qualche parte<br />
in aeroporto. Perché parli con me?»<br />
«Sono qui da un po’, ho contato venti aerei che sono decollati da quella<br />
pista laggiù e non ho aggiornato il mio iPod, non ho più nulla di nuovo<br />
da ascoltare. Mi annoio! E pensavo fosse <strong>lo</strong> stesso per te…»<br />
Mi raccontò che stava andando a Stoccolma, sperava di trasferirsi lì a<br />
studiare per un po’, voleva andarsene da casa, non ne poteva più della<br />
sua famiglia e voleva un po’ di spazio, visto che a casa quel poco che<br />
aveva veniva assorbito dal fratel<strong>lo</strong> minore, con cui era costretto a condividere<br />
la camera. Lo raccontava con tale veemenza che al mio<br />
sguardo un po’ fisso reagì concludendo con un: «Mi capisci, vero?»<br />
> :-<br />
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