<strong>Riders</strong> La Seconda Real People Qui in senso orario: Salmi pronto a scendere in pista. Vinicio ha corso nel Motomondiale con la Scuderia Diemme, insieme al venezuelano Cecotto, entrambi sono passati alle monoposto: all'italiano manca l'accesso alla Formula 1 che è invece riuscito al sudamericano; in pista con la Yamaha 350; al Pit Stop a Laguna Seca 1992 con la Scuderia Diemme; Vinicio durante la 200 Miglia di Imola Revival del 2010. 38
<strong>Riders</strong> Magazine n.106 Qui dall'alto verso il basso: Vinicio concentrato sulla griglia di partenza prima di una gara con la Scuderia Diemme. Nel 1975 mentre indossa la tuta prestata da un amico che porta il suo stesso gruppo sanguigno. Insieme al canadese Michael Cannon, ingegnere della sua vettura nel 1990. pioveva, e la mia testa, percependo una situazione di allarme, si è messa in allerta. Ero focalizzato al 100 percento e sarei potuto arrivare secondo, ma poi è spuntato il sole, la pista si è asciugata e ho perso due posizioni». Ormai, nonostante tutto, Vinicio ha dimostrato a se stesso di poter stare con i migliori. E così l’anno successivo decide di assecondare i desideri del bambino che da piccolo, prima di fare le piroette in cielo, andava matto per un certo Mario Andretti, capace di vincere in Formula 1, Indycar e Nascar. «Andava forte, rappresentava l’italiano che va negli Stati Uniti e raggiunge il successo. E poi faceva parte del colorato mondo americano, fatto di sponsor e colori, antitesi di quello italiano, dove le tute erano nere e seriose». Salmi si compra una Chevron B38 motorizzata Toyota ed esordisce da privato nella Formula 3 europea raccogliendo risultati incoraggianti: «Se guidi la moto passare alle auto è possibile, mentre il processo inverso è difficile. Le due ruote richiedono molto talento, mentre con le macchine puoi imparare. Nel primo caso il pilota può essere determinante al 60 percento e compensare con la guida alle carenze del mezzo, mentre nell’altro la percentuale si riduce al 10 percento, fatta eccezione per i campionissimi». Nel 1981 a Monaco la velocità con cui affrontava la chicane durante la prima sessione di prove cronometrate, dati alla mano, lo avrebbe piazzato al secondo posto in Formula 1: Patrick Tombay svoltava a 172 km/h, Nelson Piquet a 169. Stesso rilievo per Salmi, che però correva in Formula 3. Un’altra categoria, inferiore e generalmente più lenta. Nonostante ciò il ferrarese si era messo dietro gente come Alain Prost e Gilles Villeneuve, rispettivamente al volante di Renault e Ferrari. Più corre, più sogna l’America. E così nella prima metà degli anni 80 Salmi fa il grande salto, trasferendosi prima a New York e poi a San Francisco. La vita dell’emigrato è in salita, e prima di rivederlo al volante occorre aspettare fino il 1987. Tre anni più tardi vince la gara di Vancouver nella serie Indy Lights con il team Genoa Racing ed è terzo nella tappa di Denver, nel 1992 a Elkhart Lake rimonta dalle retrovie ma viene penalizzato per aver superato la pace-car mentre entrava nella corsia box. «Sarei salito sul podio». Salmi apre la mano destra e mostra i sei calli che ne irruvidiscono il palmo: «Sono passati 24 anni e mi accompagnano ancora, quelle erano auto senza servosterzo, senza servofreno, senza bottoni, per cambiare marcia servivano i muscoli. L’Indy è roba da uomini veri, si guida con le braccia, con il piede e con il culo. Il sedere è la parte del corpo con cui senti come si comporta la vettura». Nel frattempo l’opportunità di centrare il bersaglio grosso ed entrare VINICIO SALMI HA GAREGGIATO PER SE STESSO E CONTRO TUTTI. HA RACCOLTO MENO DI QUANTO IL SUO TALENTO POTESSE CONSENTIRGLI. «CORREVO PER CURIOSITÀ, PER PASSIONE E PER NOIA, LO AMMETTO». ORA APRE LA MANO DESTRA E MOSTRA ANCORA I SEI CALLI PER LE AUTO SENZA SERVOSTERZO in Formula 1 si presenta più volte, ma senza concretizzarsi. Il ferrarese è entrato in un’élite in cui i quattrini a volte contano più del talento: non basta averne, bisogna averne tanti e spesso più di quanti se ne hanno a disposizione. Gli sponsor abbondano comunque e gli affari gli permettono uno stile di vita fatto di sfarzi: residenza a Montecarlo, aereo privato con pilota personale per gli spostamenti nel continente, frequenti tappe in mete come Honolulu, Las Vegas, Tokyo e Mexico City. Le ruote sono passate da due a quattro, ma i vizi sembrano rimasti gli stessi. Fra party e bollicine Salmi se la gode e si cimenta anche nella motonautica, partecipando a qualche gara di off-shore: «Ricordo in particolare la Viareggio - Bastia - Viareggio, ho piantato lo scafo a 180 all’ora e non è successo più niente, solo impatti con le onde, quasi mi addormento». Per lui le competizioni erano quasi un diversivo, correva «per curiosità, per passione e anche per noia, lo ammetto». L’Europa l’ha fatto pilota, gli Stati Uniti l’hanno trasformato in manager e businessman, concretizzando nei risultati un talento puro ma non sempre facile da gestire: «Andavo forte senza esserne pienamente cosciente, per me era normale». Un dato confermato dal patron della scuderia Diemme, Primo Melandri: «Era naturalmente dotato, come lui ne ho visti pochi, e io di campioni ne ho conosciuti parecchi». Salmi ha gareggiato per se stesso e contro tutti, nonostante l’incidente del 75 gli abbia restituito un piede sinistro mai tornato alla completa funzionalità. Ha raccolto meno di quanto si pensava agli esordi ma abbastanza per fare allargare il sorriso che lo accompagna in ogni aneddoto pre-1992, quando il prurito che sentiva nel piede destro ha lasciato spazio all’appagamento, alle riflessioni di un uomo diventato papà, alla consapevolezza di chi riconosce che il rischio, quando si gareggia, è dietro l’angolo. «Così ho smesso con le corse, d’emblée. Basta, stop, finita, addio». E la paura, ha contribuito? «No. Non l’ha fatto, mai». 39