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Ndrangheta a Lecco_#7E45 - Trasparente

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fenomeno. Tuttavia la presenza delle cosche “storiche” si fece progressivamente più<br />

visibile e aperta, soprattutto nelle zone dell’hinterland: in parte come puro<br />

prolungamento e articolazione della mafia siciliana, in parte come presidio di<br />

interessi e attività avviati localmente in proprio.<br />

L’alibi del terrorismo<br />

In generale le capacità di condizionamento della struttura sociale da parte dei clan<br />

restarono però piuttosto contenute. La prima volta che la mafia mostrò in modo<br />

tracotante la sua presenza nel cuore del tessuto economico e professionale<br />

lombardo fu nel 1979, allorché venne ucciso l’avvocato Giorgio Ambrosoli,<br />

liquidatore - per conto della Banca d’Italia- della Banca privata italiana di Michele<br />

Sindona. Quest’ultimo, con la sua sfolgorante carriera realizzata tra Roma e Milano,<br />

rappresentava bene le affinità tra certi ambienti professionali lombardi e la sfera<br />

criminale - mafiosa della finanza e della politica. Lo stesso assassinio di Ambrosoli<br />

espresse purtuttavia un conflitto di culture e di interessi che la società del Nord<br />

faticava a sentire come proprio, quasi che tra le presenze criminali nelle strade<br />

dell’hinterland e la presenza dei capitali mafiosi nei cieli della finanza stesse<br />

accomodata una intera società intatta e vergine. Non era così. Ma la minaccia del<br />

terrorismo (definitivamente sconfitto solo verso la metà del decennio Ottanta) giocò<br />

un ruolo di rilievo nel tenere lontane dalla mafia attenzioni e preoccupazioni<br />

pubbliche e private. E sempre l’alibi del terrorismo impedì, a Torino, di capire il<br />

peso degli interessi mafiosi gravitanti dietro l’assassinio del procuratore della<br />

Repubblica Bruno Caccia, che aveva aperto un’inchiesta sulla presenza dei clan in<br />

Piemonte e Val d’Aosta.<br />

Il 1983<br />

Dovendo scegliere uno spartiacque capace di indicare orientativamente il “prima” e<br />

il “dopo” nella storia della mafia al Nord, è forse possibile trovarlo nel 1983. Fu nel<br />

febbraio del 1983, infatti, con il cosiddetto blitz di San Valentino, che a Milano<br />

venne portata alla luce dalla magistratura una rete di società milanesi di proprietà<br />

di affiliati a Cosa Nostra e gestite da imprenditori “insospettabili”, incarnazione<br />

esemplare della cosiddetta “mafia dei colletti bianchi”. E fu sempre nel 1983 che<br />

venne smascherato l’assalto delle cosche catanesi e palermitane al casinò di<br />

Sanremo, in raccordo e sotto la protezione di settori del mondo politico, in<br />

particolare di uomini del partito socialista. Fu ancora in quell’anno che maturò la<br />

consapevolezza che il ruolo del boss Angelo Epaminonda, che aveva ereditato a sua<br />

volta il ruolo di Angelo Turatello come capo della “mala” milanese, non era più<br />

quello classico del gangster metropolitano (magari fornito di amicizie nel mondo<br />

mafioso) ma era diventato quello del mafioso vero e proprio, che alla gestione del<br />

gioco d’azzardo legava la gestione del traffico di cocaina. Lo stesso Epaminonda,<br />

arrestato nel ‘84 e diventato il primo grande “pentito” del Nord, illuminò le<br />

relazioni precisamente mafiose che egli aveva costruito attraverso la sua attività.<br />

Nel clima di corruzione politica<br />

La vicenda Epaminonda consentì anche di mettere a fuoco un problema<br />

sociologicamente e storicamente rilevante: quello della trasferibilità e imitabilità del<br />

modello mafioso. In sostanza emerse la possibilità (peraltro già sperimentata in<br />

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