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grandi a quelle piccole. Un’altra eccezione è la Germania, in cui a differenza degli altri paesi non si registra alcuna sostanziale variazione del numero di occupati nelle varie classi dimensionali, se non per le imprese con meno di 20 addetti (fig. 4-14). La dinamica dell’occupazione all’interno dei diversi intervalli dimensionali è il risultato congiunto dei cambiamenti che interessano da un lato la dimensione media delle imprese, e dall’altro la loro numerosità. I due fenomeni sono rappresentati nelle figure 4-15 e 4-16. Dalla figure 4-13 si Fig. 4-15 — Confronti cross-country delle dimensioni medie delle imprese (a) Incluse imprese artigiane. (b) Escluse imprese artigiane. (c) Imprese con più di 10 addetti. Fonte: cfr. Guelfi e Traù (2001). Fig. 4-16 — Variazione % della numerosità delle imprese, totale manifatturiero Fonte: cfr. Guelfi e Traù (2001). 174
icava che i paesi esaminati mostrano un aumento della dimensione media nel corso della prima fase, seguito da una flessione nella fase successiva; la figura 4-16 mostra invece che a questo andamento corrisponde una tendenza generale dello stock delle imprese a ridursi nel corso della prima fase, e ad accrescersi di nuovo nella seconda. Quindi è possibile individuare due distinti modelli di comportamento a seconda delle diverse fasi dello sviluppo industriale: fino agli anni Settanta la base industriale si espande attraverso un processo di concentrazione (diminuisce il numero delle imprese, e la loro dimensione media si accresce); nella fase successiva il meccanismo si inverte, e mentre il numero delle imprese torna a salire la loro dimensione media si riduce. In questo contesto, vi è una notevole peculiarità del caso italiano consistente nel fatto che la flessione della dimensione media osservabile dopo gli anni Settanta si realizza nonostante essa sia già considerevolmente inferiore a quella degli altri paesi all’inizio del periodo. Si può dunque dire che il sistema industriale italiano presenti una propensione maggiore degli altri paesi a ridimensionare la scala delle attività produttive. Esistono cioè da un lato fattori comuni, che spiegano perché i paesi industriali (ad alcuni dei quali si riferiscono i dati qui riportati) modificano il loro modello di industrializzazione spostando l’occupazione verso unità produttive di dimensione inferiore rispetto al passato; ed esistono fattori specifici, che riguardano il sistema industriale italiano in quanto tale. In generale, la tendenza a un aumento del peso economico delle imprese di dimensione piccola e media è il risultato di cambiamenti importanti che investono l’organizzazione delle attività produttive a livello internazionale. Questi cambiamenti, che cominciano a essere visibili all’inizio del decennio Settanta, ruotano attorno al fatto che un volume crescente di transazioni avviene, piuttosto che dentro i confini aziendali, attraverso scambi tra unità distinte. In altri termini la divisione del lavoro si realizza sempre meno all’interno dell’impresa, e sempre più mediante rapporti tra imprese diverse. Le ragioni di questo fenomeno sono più d’una. Tra esse si possono ricordare una maggior rigidità delle regole relative all’organizzazione del lavoro; l’irrompere nei processi produttivi di nuove tecnologie che hanno abbassato la dimensione efficiente minima di impianto; il carattere asimmetrico degli stessi shock petroliferi, che hanno penalizzato le produzioni più energy intensive (per lo più caratterizzate da elevata dimensione media delle imprese). Ma, soprattutto, la «rottura di paradigma» che viene consumata a partire dalla fine del decennio Sessanta affonda le sue radici nel notevole e progressivo aumento della pressione concorrenziale indotto dall’integrazione internazionale dei sistemi produttivi e dal parallelo esplodere dell’incertezza sui mercati finanziari conseguente alla crisi del sistema di Bretton Woods. Mentre il primo fattore spinge le imprese a concentrare le risorse sul core business, cedendo all’esterno le attività meno strategiche, la crisi del sistema finanziario internazionale nei primi anni Settanta fa esplodere l’incertezza, riducendo la prevedibilità dei rendimenti attesi e facendo salire la rischiosità degli investimenti di maggiore dimensione. Se la concorrenza contribuisce a ridimensionare il grado di diversificazione (di integrazione conglomerale) delle imprese, la «turbolenza» spinge verso un abbassamento dell’integrazione verticale, favorendo — attraverso la ricerca di minori costi fissi — una frantumazione delle attività per fase di produzione. Il numero delle imprese aumenta, la loro dimensione media si riduce. 175
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