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Rivista della Diocesi 2011 - N. 1 - Webdiocesi

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Nell’eterno flusso del divenire ogni morire è nascere e quindi ogni fine<br />

può essere considerata inizio; al contrario ogni determinazione che nasce,<br />

a partire dal suo nascere, si immette in un sentiero di morte. La sapienza<br />

dei Greci e di molti popoli sa che l’uomo, ab origine, è implicato in questo<br />

destino. L’intrinseco dissidio tra lo svolgimento del ciclo naturale e le pretese<br />

vitali dell’individuo, che è conato d’esistenza (Spinoza) e “centro di forze”<br />

(Nietzsche), costituisce il profilo essenziale del tragico. La ripetizione, ossia<br />

l’eterno ritorno dell’identico nell’infinita metamorfosi del tutto, non consola<br />

dalla morte, perché non mette alcuna determinazione al riparo da essa. Ne<br />

valgono considerazioni come quelle di Epicuro (“quando ci siamo noi non c’è<br />

la morte, quando c’è la morte non ci siamo noi”) a sciogliere gli uomini dal<br />

timore, che non è solo paura del dopo, ma anche del dover morire.<br />

c) Tragico antico e tragico moderno<br />

Se il tragico permette di portare in luce un aspetto importante dell’esperienza<br />

del dolore è però vero che l’esperienza umana del soffrire – del dolore<br />

sia fisico che morale – è molto più estesa <strong>della</strong> sua configurazione tragica.<br />

Kierkegaard ha il merito di avere identificato perfettamente la concettualità<br />

del tragico antico ed insieme di mostrare come nel moderno la tragicità<br />

attinga il suo culmine e perciò, in certo senso, la sua verità. Studiando<br />

questo problema il pensatore danese raggiunge una interessante chiarificazione<br />

sulla questione del dolore nella sua generalità. Secondo Kierkegaard<br />

il tragico antico è caratterizzato fondamentalmente dalla pena.<br />

Egli scrive in proposito<br />

142<br />

Nella tragedia antica la pena è più profonda, minore il dolore; nella tragedia<br />

moderna il dolore è più grande, minore la pena. La pena contiene sempre in<br />

sé qualcosa di più sostanziale che non il dolore. Il dolore suppone sempre una<br />

riflessione sulla sofferenza, che la pena non conosce. Dal punto di vista psicologico<br />

è molto interessante osservare un fanciullo quando vede un anziano patire.<br />

Il fanciullo non è abbastanza dotato di riflessione per provare dolore, eppure la<br />

sua pena è infinitamente profonda. Non è abbastanza dotato per avere una rappresentazione<br />

di peccato e delitto: quando vede un anziano patire non gli capita<br />

di pensarci, eppure, se la ragione <strong>della</strong> sofferenza gli resta nascosta, ce n’è un<br />

vago presentimento nella sua pena. Così, ma in perfetta e profonda armonia, è<br />

la pena greca, ed è per questo che essa è ad un tempo tanto dolce e tanto profonda.<br />

20<br />

20 S. KIERKEGAARD, Il riflesso del tragico antico nel tragico moderno, in Enten-Eller,<br />

Adelphi, Milano 1977, pp. 29- 30.

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