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Rivista della Diocesi 2011 - N. 1 - Webdiocesi

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Il passo è interessante: l’esperienza greca del dolore si formula, in<br />

prima istanza come pena, cioè come pathos, che è insieme empatia e compassione,<br />

ovvero immedesimazione radicale con la situazione di dolore.<br />

Ciò che di assolutamente primo c’è nel tragico greco è questa immediatezza:<br />

il dolore esiste, di dolore si muore prima ancora di ogni giustificazione,<br />

se mai il dolore possa essere giustificato o di giustificazioni abbia<br />

bisogno, visto che appartiene all’innocenza <strong>della</strong> physis. La sofferenza dei<br />

moderni è invece secondo Kierkegaard “dolore” in senso stretto, in quanto<br />

è interiorizzazione <strong>della</strong> pena ed è vissuta nel quadro <strong>della</strong> responsabilità:<br />

qui la responsabilità diviene chiave per l’interpretazione autentica del dolore<br />

e la ricerca di una giustificazione del patire elabora una rete di motivi che<br />

sottraggono il dolore alla sua immediatezza facendolo diventare interiore.<br />

Il carattere imprevisto e paralizzante del dolore attiene al tragico come<br />

dimensione metafisica: esso è inviato e nel contempo immotivato. Bisogna<br />

in primo luogo subirlo; operare poi per lenirlo; vivere infine nella speranza<br />

del suo dileguare. Quando il dolore è immane, stringe la sua morsa e non<br />

lascia scampo, soprattutto chiude il futuro e rende impossibile la speranza 21 .<br />

Di dolore si muore, ma ad esso anche si scampa, ad esso si sopravvive. Di<br />

più: se ad esso si sopravvive, attraverso il dolore si cresce perché la sofferenza,<br />

data la radicalità dell’esperienza, produce sapienza. Vi è dunque<br />

anche la possibilità di convivere con il dolore: esso appare allora come uno<br />

spazio aperto di possibilità, senza con ciò perdere il suo carattere di prova<br />

e di prova mortale. In questo caso la sofferenza, anche la più atroce non<br />

riesce a spegnere la speranza: quando questa prende piede, s’impianta<br />

come decisione per la vita che è un riflesso dell’istinto di vita che abita ogni<br />

uomo. In questo senso la speranza ha a che fare con il desiderio e la volontà:<br />

in quanto è orientata ad una meta, ad un obiettivo futuro essa è traccia<br />

dell’essere-aperto-progettante costitutivo <strong>della</strong> profondità <strong>della</strong> coscienza<br />

umana. Si tratta qui, nel contesto greco, di una speranza “pagana”, carica di<br />

incertezza e rivolta alla “riserva di bene” che il possibile contiene e che, ad<br />

ogni momento, si può realizzare.<br />

Il piacere del corpo e il gusto dell’ebbrezza vitale riemergono nel cristianesimo<br />

paganizzante dell’Umanesimo e del Rinascimento e tornano a rendere<br />

pagana la speranza cristiana. Ma si tratta di un paganesimo filtrato,<br />

perché porta con sé – in un certo senso “secolarizzati” – i caratteri cristiani.<br />

21 La concezione che i greci avevano del mondo permetteva loro di coltivare una “speranza<br />

breve”, per nulla assimilabile alla speranza ebraico-cristiana, fondata sull’Alleanza e<br />

vincolata al paradosso cristiano <strong>della</strong> fede pasquale.<br />

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