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decanter 2, giugno 2006

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C venne folgorata dal famoso “Blù Savona”<br />

delle maioliche locali, tipico come<br />

quello degli “azulejos”, le piastrelle di<br />

terracotta colorata che rispecchiano il<br />

segreto della luminosità prodigiosa di<br />

Lisbona - fino ad approdare all’attuale<br />

sua convinta adesione all’arte del Raku,<br />

in cui ora si esprime gran parte della<br />

sua produzione artistica. Il quale Raku è<br />

un’antica tecnica giapponese, in qualche<br />

modo legata alla filosofia Zen e all’influenza<br />

del buddismo nella cultura e nel<br />

costume del Sol Levante, e che viene<br />

praticata con argille ricche di sabbia silicea,<br />

e perciò refrattarie, che consentono<br />

cotture rapide e multiple, a basse temperature,<br />

con particolari smalti a base di<br />

piombo, che danno vita a colori ed effetti<br />

singolarissimi pressoché inediti da noi.<br />

Ma al dì là delle procedure o modalità<br />

tecniche, che possono concorrere a moltiplicare<br />

il fascino dei singoli manufatti,<br />

è il mondo che vi è sotteso a rendere palpitante<br />

di vita le sculture di Pina Ferrara.<br />

Il “mezzo”, si è già detto, vi concorre la<br />

sua parte. Quegli elementi primari, terra,<br />

creta, argille ferrose, da impastare<br />

con l’acqua, come il pane, e poi da arroventare<br />

nella fornace, donde si estraggono<br />

stillanti ancora smalti multicolori,<br />

o invetriati, ossidati, spesso percorsi da<br />

tenuissime venature giallo-viola, o ancora<br />

come rappresi in un bianco calcinata,<br />

sono di per sé sufficienti a spiegare<br />

la peculiare seduzione della ceramica,<br />

anche quando è opaca, perfino quando<br />

rimane allo stato di terracotta, lo stadio<br />

del vasellame contadino, risalente addirittura<br />

al Paleolitico, e che oggi costituisce<br />

la fortuna degli archeologi, ovunque<br />

lo si ritrovi, a Matera coma a Palmira,<br />

a Cuzco o nei villaggi degli aborigeni<br />

australiani. Ma quel “mezzo” resterebbe<br />

inerte, un prodotto inutilmente elegante<br />

nelle sue fattezze formali, se non<br />

lo motivasse un mondo interiore, e una<br />

ricerca assidua e ostinata che affonda<br />

la superficie nel turbamento dell’inconscio.<br />

Perché Pina Ferrara, questa donna<br />

lucana che ha sposato la ceramica con la<br />

fatalità che presiedeva all’opera di due<br />

fra i più grandi plasticatori e scultori del<br />

Novecento, Arturo Martini e Zeoncillo,<br />

sottomette il suo “mezzo” a una visione<br />

in cui si intrecciano reale e surreale,<br />

oggettività e mistero, una veggenza che<br />

tende a scandagliare la profondità, esprimendosi<br />

per simboli, spesso inquietanti,<br />

sempre intesi a un’ardua, spericolata in-<br />

c u l t u r a<br />

tegrazione tra “verosimile” e “inverosimile”.<br />

Consapevole, come ammonisce<br />

Leonardo, che “la natura è piena di infinite<br />

ragioni che non furono mai in isperienzia”,<br />

essa si propone di penetrare il<br />

senso del mistero che presiede al creato,<br />

nelle sue multiple apparenze (o sospetti<br />

d’apparenza), come è indicativo dagli<br />

tessi nomi dei suoi referenti ideali: il De<br />

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