decanter 2, giugno 2006
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C<br />
“Una storia di violenza” o “Una storia della<br />
violenza”? La prima espressione sembra<br />
riferirsi a una qualsiasi vicenda di ordinaria<br />
brutalità, magari consumatasi tra l’indifferenza<br />
generale. La seconda invece pare annunciare<br />
un tentativo non definitivo di ricapitolare per<br />
grandi linee la presenza e l’evoluzione della<br />
Violenza nella storia dell’uomo. Due concetti<br />
in qualche modo contrapposti. La lingua<br />
italiana li distingue per mezzo di una semplice<br />
preposizione, mentre in Inglese convivono<br />
entrambi nella frase che dà il titolo all’ultimo<br />
lavoro di David Cronenberg. E proprio in<br />
questa ambivalenza sta una delle chiavi di<br />
lettura del film.<br />
La trama si basa sul tipico tema Noir del<br />
passato che ritorna come una maledizione per<br />
sconvolgere la vita di uomini che avevano<br />
ANTONIO AMENDOLARA<br />
Il passato davanti a noi<br />
Bruno Arpaia,<br />
Ugo Guanda editore, Parma <strong>2006</strong><br />
Le epigrafi che aprono l’ultimo romanzo<br />
di Arpaia racchiudono il senso e la difficoltà<br />
della sua impresa narrativa. La prima<br />
è di Scott Turow: Forse è inutile spiegare<br />
le passioni di un’epoca ad un’altra, subito<br />
seguita da una citazione dall’ultimo Javier<br />
Cercas, Le uniche storie che vale la<br />
pena di raccontare sono quelle che non<br />
possono essere raccontate. La narrazione<br />
si occupa di anni “difficili”, i ’70, quelli<br />
di una generazione che inseguiva la “semplicità<br />
che è difficile a farsi”, anni raccontati<br />
troppo poco e comunque troppo male.<br />
Le vicende di un gruppo di ragazzi in un<br />
paese del napoletano sono la trama di un<br />
racconto straordinario, in parte romanzo<br />
di iniziazione, ma soprattutto descrizione<br />
di un percorso collettivo, politico sì,<br />
ma anche sociale, culturale, affettivo. La<br />
ricostruzione è accuratissima, con l’aiuto<br />
esplicitamente dichiarato di molti amici e<br />
di molti libri, perché la verità storica non<br />
provato a cancellarlo e voltare pagina. Se<br />
si pensa al cinema nero come al genere che<br />
scava nel torbido della società con realismo<br />
ed eleganza formale, e che di solito preferisce<br />
lasciar intendere piuttosto che mostrare, mai<br />
si sarebbe immaginato di vedere un film Noir<br />
girato da Cronenberg, un regista che ancora<br />
si porta appiccicata addosso l’etichetta di<br />
profeta della mutazione, di filosofo del cinema<br />
splatter, e che da sempre lavora sulle immagini<br />
per mostrare il non ancora mostrato e il non<br />
mostrabile (“La Mosca” o “Scanners” solo per<br />
citare due esempi).<br />
Non bastasse questo, “A History of Violence”<br />
è anche un film su commissione, con un<br />
soggetto tratto da un albo a fumetti, insomma<br />
un progetto che rischiava pregiudizi e mala<br />
fede. E invece il regista canadese realizza<br />
può che essere impresa collettiva, perché<br />
“non trova posto in una sola testa”. Ma va<br />
dato merito ad Arpaia di aver acquistato,<br />
romanzo dopo romanzo, uno spessore narrativo<br />
e una capacità di coinvolgere mente,<br />
cuore e viscere del lettore, che lo pone<br />
allo stesso livello di scrittori come Jonathan<br />
Coe, con la capacità cioè di coniugare<br />
“l’assuefazione da soap opera con un’assoluta<br />
integrità culturale”. Per questo, forse,<br />
il romanzo di Arpaia ha la possibilità<br />
non tanto di far ricordare, in una sorta di<br />
nostalgico “come eravamo”, ma soprattutto<br />
di raccontare il percorso irripetibile di<br />
una generazione a chi ne ha sentito parlare<br />
solo nella distorsione e nella vulgata degli<br />
“anni di piombo”. E di libri come questo<br />
ce n’è bisogno, perché il passato continua<br />
ad essere davanti a noi, come accade all’Angelo<br />
della Storia di Benjamin (figura<br />
costante nei libri di Arpaia, direttamente<br />
o indirettamente evocata), e non si com-<br />
c u l t u r a<br />
“A History of Violence”<br />
di David Cronenberg<br />
uno splendido e angosciante studio sulle<br />
cause e le conseguenze di un atto di violenza,<br />
una radiografia completa della ferocia che<br />
serpeggia tra le pieghe delle nostre abitudini e<br />
dei nostri stili di vita. Ragionando freddamente<br />
sull’intreccio tra violenze psicologiche, fisiche<br />
e mediatiche, il film ritrae la violenza senza<br />
alcun compiacimento, la descrive come vizio,<br />
perversione, istinto malato, come strumento di<br />
potere, come sistema. Di fronte alla magnifica<br />
scena finale di A History of Violence, il miglior<br />
film della stagione 2005-<strong>2006</strong> a parere di chi<br />
scrive, è difficile non avvertire un brivido<br />
e non riconoscere, per un attimo, le proprie<br />
responsabilità di fronte alla violenza del<br />
sistema a cui si appartiene.<br />
PAOLO FANTI<br />
prende il presente e le sue miserie, se non<br />
interrogando il rimosso di quegli anni, anche<br />
recuperando e rivendicando quel senso<br />
di collettività, quella “voglia e il bisogno<br />
di uscire, di esporsi nella strada e nella<br />
piazza”, di cui cantava Giorgio Gaber.<br />
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