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decanter 2, giugno 2006

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li, il profilo dell’assegno che custodiva come un tesoro nel taschino<br />

interno. Lo stringeva nel palmo, lo sentiva spiegazzarsi,<br />

e allora allentava la presa, perché una volta assicuratosi che<br />

non si fosse volatilizzato e conservasse il suo posto, sarebbe<br />

stata un’intollerabile stupidaggine rovinarlo. Dodicimila euro<br />

valeva quella striscia sottile di carta che non smetteva di tormentare.<br />

Dodicimila euro. D’accordo, non era in definitiva una<br />

cifra da perderci la testa, tale da poterci vivere di rendita per<br />

il resto dei giorni – che era poi il sogno che in fondo al cuore<br />

coltivava -, ma costituiva pur sempre un solido inizio.<br />

Maurizio non aveva ancora uno studio con una placca d’ottone<br />

accanto alla porta, non poteva permetterselo. Lavorava<br />

come consulente in un’agenzia immobiliare, ma al di là della<br />

magniloquenza e ambiguità del termine, le mansioni che praticamente<br />

era chiamato a svolgere si riducevano, né più né<br />

meno, a quelle ordinarie di un’agente qualunque. Considerava<br />

la sua posizione schiettamente umiliante, e se a questo affiancava<br />

la paga sanguinante dello stipendio che riceveva – era<br />

grasso che colava se arrivava a 600 euro al mese – diventava<br />

paonazzo e gli veniva da piangere dalla disperazione.<br />

Era un professionista, lui, con tanto di titoli e attestati, non<br />

un garzone di bottega. La signora Belli, l’attempata e tirata<br />

titolare dell’agenzia, lo trattava come un giovincello alle prime<br />

armi, lo frustava con occhiatacce furenti ogni volta che<br />

si intratteneva al telefono più dello stretto necessario, non<br />

gli chiedeva mai un parere professionale, e quando lo inviava<br />

a trattare con un cliente gli forniva previamente una lista<br />

dettagliatissima di istruzioni che lui era tenuto unicamente a<br />

mandare a memoria e ad eseguire punto per punto. Come se<br />

lui, Fabrizio Berti, fosse un imbecille incapace di partorire un<br />

pensiero proprio e di spiccare frasi di senso compiuto.<br />

Ma non era così, accidenti. Lui non era il sempliciotto che in<br />

molti consideravano. Sapeva che l’agenzia non gli offriva alcuna<br />

seria prospettiva, che continuare in aeternum in quel posto equivaleva<br />

ad un crudele e infruttuoso spreco di energie, e perciò,<br />

dovunque andasse, anche per conto della Belli, si teneva pronto a<br />

cogliere al volo, qualora si fosse presentata, l’occasione propizia a<br />

procacciarsi un cliente a titolo strettamente personale.<br />

In questo modo contava di arrotondare le proprie entrate,<br />

ma soprattutto di farsi conoscere nell’ambiente per quello<br />

che realmente valeva.<br />

Questo era quanto aveva sempre sperato, e finalmente i<br />

fatti cominciavano a dargli ragione. Aveva avuto il merito di<br />

non desistere, di non cedere alla collezione di fregature che<br />

aveva accumulato. Aveva aspettato con la pazienza di un certosino,<br />

e quando il caso e la perseveranza – oltre che il preziosissimo<br />

contributo di un parrucchiere, per la verità -, lo misero in<br />

contatto con la Vicini, o Piccini, non si era lasciato cogliere alla<br />

sprovvista, e il risultato era che ora poteva godersi, svaccato<br />

sul sedile come sul divano di casa sua, il piacere intenso e tutto<br />

privato di lisciare amorevolmente, come un orsacchiotto di<br />

peluche, quella palpabilissima promessa di felicità.<br />

Il treno rallentò in un tratto in aperta campagna, e di lì a<br />

poco, con il consueto accompagnamento di sbuffi e stridori, si<br />

fermò del tutto.<br />

r a c c o n t o<br />

Ostia Antica, lesse Fabrizio su un cartello filante e abbrustolito<br />

dal sole, tamponandosi il collo e la fronte col suo bel<br />

fazzoletto siglato. Era accaldato, e smaniava di tornare a casa.<br />

Guardò l’orologio, e suppose che di quel passo non sarebbe<br />

giunto a Piramide prima di una mezz’ora buona. Frugò nella<br />

cartella come un cagnolino che scava una buca in un parco,<br />

con una certa apprensione, e ne estrasse il supplemento settimanale<br />

di un quotidiano. Posizionò la cartella di piatto a formare<br />

un piano liscio come un tavolino, e vi depositò sopra la<br />

rivista. Ma prima che potesse anche soltanto leggere il titolo<br />

sulla copertina, notò con la coda dell’occhio una figura scura<br />

e rotonda che si faceva largo nel vagone dondolando con il<br />

busto come se ad ogni passo, per poter aver ragione della<br />

propria mole, dovesse buttarsi con le spalle in avanti, come un<br />

velocista in prossimità del traguardo.<br />

Sbirciando con maggior attenzione, Fabrizio constatò che si<br />

trattava di una suora, e che puntava al sedile libero di fronte<br />

al suo.<br />

Era bassa e tracagnotta, con un crocifisso grande quanto un<br />

cartellone pubblicitario affondato nel petto, un paio di occhialetti<br />

di metallo assicurati a una catenella, un rosario arrotolato<br />

a un polso come un braccialetto, e il sacchetto di plastica di<br />

un supermercato che penzolava floscio dall’altra mano. Aveva<br />

un’espressione corrucciata, con la fronte rugosa e le sopracciglia<br />

arcuate, guance cascanti come le orecchie di un cocker,<br />

e una bocca stirata come un elastico sul punto di spezzarsi. Si<br />

sedette con una mezza giravolta sofferta e aiutandosi con entrambe<br />

le braccia, festeggiando la conclusione del movimento<br />

con un prolungato «ehhh » di soddisfazione che tradiva al<br />

contempo, nel tono squillante e risentito con cui era stato<br />

pronunciato, una fastidiosa afflizione nei confronti del mondo.<br />

Accomodatasi, Suor Sofferenza, come la ribattezzò all’istante<br />

Fabrizio, ricacciò nella cuffia che le cingeva il capo come<br />

un’aureola un ciuffo di capelli ribelli sotto un orecchio, estrasse<br />

dalla busta una copia della Settimana Enigmistica con una<br />

biro sepolta tra i cruciverba, e inforcò gli occhiali. Quindi tirò<br />

fuori da una tasca mimetizzata da qualche parte della tonaca<br />

un biglietto dell’autobus, lo posizionò per traverso sul margine<br />

esterno di una pagina, ben a portata di mano, e vergò sulla<br />

carta un ghirigoro per provare la penna.<br />

Effettuò diversi tentativi, ma l’inchiostro fluiva fino a un<br />

certo punto. Poi s’inceppava, e sembrava non volesse più saperne<br />

di continuare a sgorgare. Armata di pia pazienza, Suor<br />

Sofferenza interveniva ogni volta con puntiglio, umettando la<br />

punta con la lingua, come se dovesse ripulirla da chissà quale<br />

incrostazione, e alitandovi sopra, ma quell’accidenti di aggeggio,<br />

come l’anima di un posseduto, non rispondeva alle sane<br />

sollecitazioni, e quando dalla sfera della punta non trapassò sul<br />

foglio neppure una miserrima goccia d’inchiostro, le si rimpicciolirono<br />

gli occhi dalla collera, e Fabrizio pensò che doveva<br />

costarle parecchio trattenersi dallo scaraventarla a terra e distruggerla<br />

sotto i tacchi.<br />

Per questo sorrise. Ricordò allora di avere con sé la Mont<br />

Blanc infilata di lungo nella stessa tasca dell’assegno, e dopo<br />

l’ennesima tastata colma d’incredulità al suo nuovo e potentis-<br />

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