a c c o n t o appuntiti e simmetrici come le ali di una freccia, la camicia incollata al ventre con i bottoni sul punto di scoppiare, e le guance rosse e rugose. Fece per chiedere a chi dei due spettasse il turno, ma quello l’interruppe prima che riuscisse a pronunciare la frase per intero, gli indicò l’altro con un gesto di stizza che sfociò in un grugnito – imputabile probabilmente alla chiusura forzata della conversazione -, e gli voltò le spalle. Il tassista capitato a Fabrizio, invece, aveva spalle e bicipiti balestrati, gambe in rapporto al torace troppo corte e striminzite, e un testone tondo come un cerchio di Giotto. Avviò il motore, e prima di partire, dopo aver domandato a Fabrizio dove dovesse dirigersi, accese la radio, regolò il volume, inforcò gli occhiali da sole a goccia con le lenti verdi, e allungando il collo come un tacchino si rimirò compiaciuto nello specchietto retrovisore. In macchina Fabrizio non spiccicò parola. Si sistemò regalmente sul sedile come su un trono, allentò di un bottone la morsa della camicia sul collo, e vi passò tutt’intorno il fazzoletto. Il tassista lo spiava rapsodicamente dallo specchietto, e al riparo di un ghigno tra il sardonico e il beffardo e che, a dire la verità, mal si combinava con quella massa fulgente di muscoli, conferendogli un’aria piuttosto idiota, malediva impudicamente il nuovo cliente, ingiuriandolo tra sé a non finire per il sudore che doveva spalmare sul coprisedile nuovo di zecca. Il traffico era rado e scorrevole come può esserlo soltanto in un fine di settimana infuocato a cavallo dell’ora di pranzo, e in una ventina di minuti scarsi, prima cioè di quanto Fabrizio stesso avesse preventivato, raggiunsero il Quartiere Africano. Giunti che furono davanti al portone, Fabrizio fece segno al tassista di accostare. Domandò con un certo sussiego il prezzo della corsa, e quando ormai era già fuori dalla macchina con una gamba e con le dita a tenaglia sul portafoglio, in quel preciso istante realizzò di non avere più in tasca il becco di un centesimo, e impallidì. Il tassista ebbe un vago sentore che qualcosa di spiacevole stava per realizzarsi, e aggrottò la fronte in un’espressione che era insieme d’allerta e di massima concentrazione. Fabrizio pensò dapprima di cavarsela con la tessera del bancomat, ma prevedendo che la macchinetta l’avrebbe impietosamente sbugiardato, e che quindi non avrebbe risolto nulla in quel modo, accantonò il proposito con altrettanta rapidità con cui gli era venuto in mente. Pregò allora l’autista di pazientare ancora qualche minuto, scattò fuori dalla macchina come la molla di una trappola per topi, e incollò il dito al bottone del citofono. Per quanto si desse la pena di scampanellare, dall’altro capo del filo non rispondeva nessuno. Le due uniche persone, infatti, in grado di intervenire con una certa efficacia in un frangente sciagurato come quello in cui Fabrizio si era malauguratamente andato a invischiare, erano contemporaneamente occupate in altro, e non potevano prestare il soccorso sperato: il padre ronfava beatamente in poltrona davanti al televisore con un volume così alto che avrebbe attutito, se non coperto del tutto, il boato di una can- 56 nonata; mentre la madre sorbiva piacevolmente un caffè con la vicina del piano di sotto. Fabrizio si girò verso il tassista, che intanto aspettava a braccia conserte, massiccio e rigido come un totem, sul marciapiede, e piegò le labbra in una smorfia che se nelle sue intenzioni doveva trasudare pura rassicurazione, comunicava invece una smaccante e progressiva perdita di controllo. Si riattaccò allora nuovamente al citofono. Schiacciò sul tasto con insistenza, tese l’orecchio, e aspettò una risposta con il fiato sospeso. Il tassista sbuffava come un toro prima della carica. Gli ribolliva il sangue al solo pensiero di poter essere stato preso in giro, o di aver fatto la corsa a vuoto, per niente. Circolavano di tanto in tanto tra colleghi aneddoti e storielline su clienti stravaganti, ma a quei racconti aveva sempre obiettato che se qualcosa di strambo fosse successa a lui, al malcapitato l’eccentricità avrebbe saputo bene dove infilargliela. Si sfregò quindi le mani, e avanzò deciso in direzione del portone. Da parte sua, Fabrizio aveva portato un palmo alla fronte, e con il capo chino e gli occhi chiusi, come un santo, meditava intensamente sulle possibilità che gli rimanevano di sbrogliare diplomaticamente la matassa. Si intimava di non perdere la testa. Si ripeteva che in fondo non stava accadendo niente d’irreparabile, che mantenendo la calma e soffocando sul nascere, al primo vagito, ogni fosco presentimento, una soluzione la si sarebbe trovata senz’altro, e per darsi coraggio, o anche soltanto perché avvertiva un leggero pizzicore sul petto, strinse la giacca sulla tasca dell’assegno. Rinfrancato e sicuro di traghettare alla fine il tassista alla sua sponda, abbandonò allora la posa da eroe romantico davanti all’infuriare degli elementi, allargò le braccia come se si preparasse ad accogliere un amico, e si schiarì la voce. Avrebbe voluto esordire con una frase propositiva e ragionevole, del tipo: “è colpa mia, ma non si preoccupi che avrà quanto le devo”, ma non ne ebbe modo. Imprecando, il tassista sopraggiunse impetuoso come un treno in corsa, affondò il suo geometrico testone nel petto gracilino di Fabrizio, spedendolo gambe all’aria sul marciapiede, come un pacco di giornali lanciato da un furgone, e prima che avesse il tempo di rimettersi in piedi e abbozzare un sia pur timido tentativo di reazione, fu investito da una nuova scarica di colpi. Quando ne ebbe abbastanza, dopo un ultimo calcetto e uno sputo d’umiliazione, il tassista si rassettò la maglietta sui muscoli, e si allontanò. Sempre imprecando, ma soddisfatto. Fabrizio pensò che, tutto sommato, al punto in cui si erano spinte le cose, sarebbe potuto andargli anche peggio.
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