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Cortina Inverno

Eccoci arrivati al decimo numero di CORTINA.TOPic. Una bella strada, quella che abbiamo percorso assieme. Con un obiettivo interessante, quello di dar vita — cinque stagioni or sono — a una rivista dalla doppia vocazione: di approfondimento e promozione, capace di immortalare la Cortina che ci piace e di dar voce a chi la ama, guardando sempre al futuro, forti di un illustre passato.

Eccoci arrivati al decimo numero di CORTINA.TOPic.
Una bella strada, quella che abbiamo percorso assieme. Con
un obiettivo interessante, quello di dar vita — cinque stagioni
or sono — a una rivista dalla doppia vocazione: di approfondimento
e promozione, capace di immortalare la Cortina che
ci piace e di dar voce a chi la ama, guardando sempre al futuro, forti di un
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64<br />

Mi trovavo a Petra, in<br />

Giordania, da dodici giorni,<br />

per la realizzazione di<br />

un servizio fotografico sulla<br />

Città Rosa. Da alpinista,<br />

pur inesperto, avevo raggiunto<br />

punti di osservazione<br />

inediti e, dopo due o tre giorni di marcia a dorso di<br />

un mulo, luoghi solitari e poco frequentati. Era l’anno<br />

1990 e ancora l’organizzazione turistica e le guide per<br />

la visita di Petra erano molto approssimativi; avevo<br />

quindi potuto spaziare dove volevo e vedere quanto<br />

il posto offriva, senza riserve. Soddisfatto del lavoro,<br />

sarei potuto rientrare, ma decisi di prendermi qualche<br />

giorno per visitare Qa’ Disi, un luogo vicino a Wadi<br />

Rum, il deserto dove dicono si nascondesse Lawrence<br />

d’Arabia. Lì, complice una tempesta di sabbia e un<br />

po’ di fortuna, riuscii a incontrare lo sceicco Jleil Abu<br />

Kayed, massima autorità della zona e capo di tutte le<br />

tribù, in quel mare di polvere e rocce. Trascorsi due<br />

giorni nella sua casa, dove viveva con le sue tre mogli<br />

e trentacinque figli, in attesa che la tempesta calasse<br />

e fosse possibile rimettersi in viaggio con lui,<br />

per la misteriosa meta di Qa’ Disi.<br />

Partiti all’alba, dopo un paio d’ore di fuori<br />

strada, in un dedalo infinito di passaggi tra<br />

montagne che affogavano nella sabbia, ci fermammo.<br />

Sembrava di vivere la scena di un<br />

film: lo sceicco avanzava con il suo mantello svolazzante<br />

verso la base di una roccia gigantesca, camminando<br />

con la sicurezza con cui noi ampezzani ci muoviamo<br />

sulle rocce. Io lo seguivo, piccolo, dietro la sua imponente<br />

figura, finché non mi accorsi di camminare su<br />

un letto di selci, punte di frecce, lame ancora taglienti,<br />

schegge appuntite: un vero giacimento di liti. Probabilmente<br />

proprio qui venivano costruiti i preziosi utensili.<br />

Avrei voluto fermarmi, ma lo sceicco continuava a<br />

grandi passi, così mi accontentai di metterne in tasca<br />

un paio di pugni. Arrivammo dopo poco a una spaccatura<br />

alla base della montagna, dove un’enorme pietra<br />

si appoggiava alla grande parete, lasciando solo una<br />

fessura di cinquanta centimetri di larghezza. Ce l’avevo<br />

fatta, avevo raggiunto il luogo che custodisce la più antica<br />

carta geografica del mondo, incisa nella roccia. Ne<br />

avevo sentito parlare da un archeologo dell’Università<br />

di Firenze, Edoardo Borzatti, che tuttavia non ne aveva<br />

svelato l’ubicazione precisa, per poterla studiare a suf-<br />

oltreconFine<br />

ficienza prima di renderla nota.<br />

Un macigno di qualche tonnellata con una superficie<br />

quasi piatta di circa tre metri per uno e mezzo<br />

giaceva incastrato lì, quasi al buio, con incisa una serie<br />

di percorsi che univano una quarantina di coppelle<br />

di varia grandezza. Sopra questa roccia Abu Kayed si<br />

muoveva, fiero di questo suo segreto, parlando tra sé<br />

e sé ad alta voce, in un arabo purtroppo a noi incomprensibile.<br />

I segni che lui indicava certamente risalivano<br />

al neolitico, dai dodicimila ai novemila anni a.C.,<br />

quando l’uomo iniziava a diventare stanziale e agricoltore,<br />

e rappresentavano con tutta probabilità i percorsi<br />

per raggiungere altri insediamenti senza perdersi<br />

in quel labirinto di montagne e canali di sabbia. Una<br />

mappa gelosamente nascosta agli occhi di altre tribù<br />

o di predoni nomadi in transito, così rimasta per una<br />

decina di millenni. Su un lato un segno più recente,<br />

di una macina per cereali, aveva cancellato altri segni<br />

preziosi. Ero affascinato, senza fiato. Scattavo e guardavo,<br />

guardavo e scattavo, con il cuore in gola. Lui,<br />

tenendo un dito in una coppella, con l’altro indicava<br />

una montagna lontana attraverso la piccola apertura<br />

che faceva passare sottili lame di sole. Lassù<br />

probabilmente si trovava il luogo dell’insediamento<br />

corrispondente a quella coppella.<br />

Una vera mappa, una carta topografica con<br />

percorsi che collegavano tribù a tribù, gruppi<br />

familiari ad altri nuclei.<br />

Avrei voluto fermarmi due giorni a fotografare,<br />

ma lui mi trascinò fuori per altri canali di sabbia, altre<br />

montagne da aggirare per mostrarmi, su una parete<br />

a strapiombo, altre incisioni rupestri di figure umane<br />

senza braccia, misteriose quanto affascinanti; più sotto<br />

ancora sulla roccia, piccoli graffiti con cammelli e<br />

stambecchi; infine altre coppe rovesciate per macinare<br />

il poco grano selvatico e dove vivere al riparo sotto<br />

pareti sporgenti e sovrastanti.<br />

Al mio ritorno in Italia, cercando di saperne di<br />

più, scoprii che a seguito di un confronto della mappa<br />

con un rilievo aero-fotogrammetrico dell’area, era<br />

possibile confermare la corrispondenza delle coppelle<br />

con effettivi ritrovamenti di insediamenti umani sulle<br />

montagne e nelle valli circostanti.<br />

Sono passati 23 anni da allora e mi chiedo spesso<br />

se quei luoghi, oggi, siano ormai meta di turisti al seguito<br />

di un ombrellino, o se continuano a preservarsi,<br />

solitari, come è stato per oltre diecimila anni.

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