64 Mi trovavo a Petra, in Giordania, da dodici giorni, per la realizzazione di un servizio fotografico sulla Città Rosa. Da alpinista, pur inesperto, avevo raggiunto punti di osservazione inediti e, dopo due o tre giorni di marcia a dorso di un mulo, luoghi solitari e poco frequentati. Era l’anno 1990 e ancora l’organizzazione turistica e le guide per la visita di Petra erano molto approssimativi; avevo quindi potuto spaziare dove volevo e vedere quanto il posto offriva, senza riserve. Soddisfatto del lavoro, sarei potuto rientrare, ma decisi di prendermi qualche giorno per visitare Qa’ Disi, un luogo vicino a Wadi Rum, il deserto dove dicono si nascondesse Lawrence d’Arabia. Lì, complice una tempesta di sabbia e un po’ di fortuna, riuscii a incontrare lo sceicco Jleil Abu Kayed, massima autorità della zona e capo di tutte le tribù, in quel mare di polvere e rocce. Trascorsi due giorni nella sua casa, dove viveva con le sue tre mogli e trentacinque figli, in attesa che la tempesta calasse e fosse possibile rimettersi in viaggio con lui, per la misteriosa meta di Qa’ Disi. Partiti all’alba, dopo un paio d’ore di fuori strada, in un dedalo infinito di passaggi tra montagne che affogavano nella sabbia, ci fermammo. Sembrava di vivere la scena di un film: lo sceicco avanzava con il suo mantello svolazzante verso la base di una roccia gigantesca, camminando con la sicurezza con cui noi ampezzani ci muoviamo sulle rocce. Io lo seguivo, piccolo, dietro la sua imponente figura, finché non mi accorsi di camminare su un letto di selci, punte di frecce, lame ancora taglienti, schegge appuntite: un vero giacimento di liti. Probabilmente proprio qui venivano costruiti i preziosi utensili. Avrei voluto fermarmi, ma lo sceicco continuava a grandi passi, così mi accontentai di metterne in tasca un paio di pugni. Arrivammo dopo poco a una spaccatura alla base della montagna, dove un’enorme pietra si appoggiava alla grande parete, lasciando solo una fessura di cinquanta centimetri di larghezza. Ce l’avevo fatta, avevo raggiunto il luogo che custodisce la più antica carta geografica del mondo, incisa nella roccia. Ne avevo sentito parlare da un archeologo dell’Università di Firenze, Edoardo Borzatti, che tuttavia non ne aveva svelato l’ubicazione precisa, per poterla studiare a suf- oltreconFine ficienza prima di renderla nota. Un macigno di qualche tonnellata con una superficie quasi piatta di circa tre metri per uno e mezzo giaceva incastrato lì, quasi al buio, con incisa una serie di percorsi che univano una quarantina di coppelle di varia grandezza. Sopra questa roccia Abu Kayed si muoveva, fiero di questo suo segreto, parlando tra sé e sé ad alta voce, in un arabo purtroppo a noi incomprensibile. I segni che lui indicava certamente risalivano al neolitico, dai dodicimila ai novemila anni a.C., quando l’uomo iniziava a diventare stanziale e agricoltore, e rappresentavano con tutta probabilità i percorsi per raggiungere altri insediamenti senza perdersi in quel labirinto di montagne e canali di sabbia. Una mappa gelosamente nascosta agli occhi di altre tribù o di predoni nomadi in transito, così rimasta per una decina di millenni. Su un lato un segno più recente, di una macina per cereali, aveva cancellato altri segni preziosi. Ero affascinato, senza fiato. Scattavo e guardavo, guardavo e scattavo, con il cuore in gola. Lui, tenendo un dito in una coppella, con l’altro indicava una montagna lontana attraverso la piccola apertura che faceva passare sottili lame di sole. Lassù probabilmente si trovava il luogo dell’insediamento corrispondente a quella coppella. Una vera mappa, una carta topografica con percorsi che collegavano tribù a tribù, gruppi familiari ad altri nuclei. Avrei voluto fermarmi due giorni a fotografare, ma lui mi trascinò fuori per altri canali di sabbia, altre montagne da aggirare per mostrarmi, su una parete a strapiombo, altre incisioni rupestri di figure umane senza braccia, misteriose quanto affascinanti; più sotto ancora sulla roccia, piccoli graffiti con cammelli e stambecchi; infine altre coppe rovesciate per macinare il poco grano selvatico e dove vivere al riparo sotto pareti sporgenti e sovrastanti. Al mio ritorno in Italia, cercando di saperne di più, scoprii che a seguito di un confronto della mappa con un rilievo aero-fotogrammetrico dell’area, era possibile confermare la corrispondenza delle coppelle con effettivi ritrovamenti di insediamenti umani sulle montagne e nelle valli circostanti. Sono passati 23 anni da allora e mi chiedo spesso se quei luoghi, oggi, siano ormai meta di turisti al seguito di un ombrellino, o se continuano a preservarsi, solitari, come è stato per oltre diecimila anni.
è davvero un inestricabile labirinto di montagne, di canali che sbucano tra rocce e gole, come se un grande fiume di sabbia si fosse infilato dappertutto: solo chi conosce questa terra come le sue tasche può tornare indietro. Una costante sensazione di incertezza ti cammina accanto mentre cerchi dei riferimenti che continuano a confondersi. It is indeed an inextricable maze of mountains, of narrow valleys coming out among rocks and ravines, as if a large sand river had flowed everywhere: only those who know this land like the back of their hands will be able to return. A constant feeling of incertitude walks at your side while you search for reference marks that keep blurring. 65