www.isiciliani.it“Niente da fare,senza il permessodi soggiorno...”l'altro, tutti si sorpresero a tirare un respiroprofondo. L'atmosfera s'era fattad'improvviso ancora più soffocante,come in quelle stive o nei cassoni di queiTir allineati nel ventre dei traghetti.Il terzo giorno Malli svenne. Quando siriprese fra le braccia del marito, sentì chequalcosa le si era spezzato dentro. Rantolava.Ogni respiro era come una coltellatasempre più profonda.Intorno a loro tutti dormivano addossatigli uni agli altri. Respiravano forte orussavano, e quel rumore ritmato di quattrocentocinquantarespiri all'unisonos'impastava con il rombo pulsante deimotori.Malli si portò le mani alle orecchie chefischiavano, si sentì svenire un'altra volta.Si fece forza.“Forse sto per morire”"Forse sto per morire" disse pianoall'orecchio dell'uomo, che protestò debolmente.Bisbigliò ancora alcune parolee l'uomo scosse la testa con forza, poi lasua bocca si stirò in un sorriso incerto."Se non è che questo... Non morirai,stà tranquilla, era solo un malore. Comunque,se proprio vuoi... Ma come facciamo,in mezzo a tutta questa gente?"Alla fine cedette, frugò nello zaino ene tirò fuori un vestito. Era il più bello,quello rosso e verde rilucente dell'orodelle monete e dei monili, quello delledanze e delle feste più importanti. Le steseintorno una coperta e distolse losguardo, ma con la coda dell'occhio laguardò mentre a fatica, gemendo, lei sisfilava il vestito scuro e si fasciava di lucidaseta.Si sentì soffocare dalla tenerezza. Lasua compagna (così la chiamava, nonmoglie, malgrado le proteste dei suoceri)non era mai stata così bella... Quando gliocchi di Malli divennero vitrei, la suabocca sorrideva ancora. Lui capì subito ecominciò a urlare. Tutti si svegliarono. Ilsuo grido divenne l'urlo disumano diquattrocento gole. Continuò per duegiorni e due notti quell'urlo, perdendosinel vento e nel mare."Sono impazziti là sotto... Se gli apriamoci saltano addosso, non se ne parlanemmeno. Buttategli qualche bottigliad'acqua, qualche scatola di antibiotico.Che ci siano morti come gridano, non cicredo, hanno la pelle dura quei cani, sentite?ululano proprio come cani..."Quando al largo di Crotone la issaronosopra coperta, il suo corpo snello s'eragonfiato al punto che tutti pensarono chefosse stata incinta. Ma sembrava ugualmenteuna regina. Sulla seta lucente ilvento di maestrale agitava i lunghi capellineri e faceva tintinnare le moneted'oro.Svegliato di soprassalto dal suo stessourlo l'uomo si drizzò nel lettino, madidodi sudore. Si portò le mani alla gola.Lentamente tornò a respirare. Per fortunale bambine non s'erano svegliate...“Le guardò dormire abbracciate”Le guardò dormire abbracciate e sichiese con angoscia se avrebbero maiavuto una vita normale, se avrebberomesso da parte il ricordo dei giorni trascorsiin quella stiva accanto al cadaveredella madre.Tornò a stendersi senza chiudere gliocchi. Quel pomeriggio il corpo di Malliera volato via verso Roma e Istanbul. Neaveva avuto la certezza dall'interprete,ma non aveva potuto nemmeno rivederela bara. Voleva accompagnarla fino aRoma nell'ultimo viaggio. La burocrazial'aveva bloccato là nel campo di Crotone:niente da fare, non aveva ancora il permessodi soggiorno. Quella sera, per laprima volta in dieci giorni, era riuscito apiangere."Vorrei tornare anch'io con lei..."“Ricostruiremo i villaggi...”Dalle roulotte rugginose allineate sullapista dell'ex aeroporto erano usciti in tanti,gli si erano stretti intorno senza parlare.Il suo dolore era anche il loro."Vorrei tornare..." Indicava in direzionedel mare, oltre il mare e le montagnedi Grecia e d'Anatolia. Tendeva le maniverso un villaggio del Botan, le ombredolci delle montagne e il verde della valledel Tigri, il profumo del fieno, i canti ele risate nel tramonto, i vecchi accoccolatidavanti alle case, le donne alla fontana,l'odore del pane appena cotto... Losentirono tutti all'improvviso, l'odore delfieno e del pane. Fu quando un anzianogli prese le mani e disse con voce forte, alui e a tutti: "Non piangere più. Tua moglieha finito di soffrire. È tornata nel vostrovillaggio e ti aspetta. Un giornoprenderai per mano le tue figlie e tornerailaggiù con loro. Con tutti noi. Torneremoun giorno nel nostro paese, ricostruiremoi villaggi distrutti e canteremo nella nostralingua, e taglieremo il fieno e spezzeremoil pane...""Possiamo scrivere due parole di salutosulla stoffa della bara? Nella fretta abbiamodimenticato anche i fiori..." Il sottufficialesi strinse nelle spalle e fece segnodi sì. Un agente sorrise e trasse di tascaun pennarello nero. Scrissero lentamentesulla tela, in stampatello, due frasi dicommiato in turco. In kurdo, lo sapevano,quelle parole sarebbero state cancellateall'arrivo a Istanbul.I <strong>Siciliani</strong><strong>giovani</strong>– pag. 90
www.isiciliani.it“Milionidi profughisi miseroin cmmino...”"Noi, popolo kurdo in Italia e amiciitaliani..." Come in un rito sfilarono davantialla bara passandosi il pennarello efirmarono. Alcuni con uno sgorbio, pernon far riconoscere il proprio nome; altriper esteso, come per sfida. Si guardaronoincerti. Mahsun alzò le braccia. Era finita.Il direttore dello scalo merci annuì:l'aereo attendeva in pista.I kurdi si posero le mani giunte sulviso in un gesto di raccoglimento, quasidi preghiera, poi le appoggiarono sullabara. Gli italiani li imitarono. Il funzionariotossicchiò, imbarazzato e impaziente.Uno dopo l'altro staccarono le manidalla bara. Uno degli italiani disse in turco,a voce alta: "Un giorno le tue figlietorneranno nel tuo paese libero, te lo giuriamo".In fila indiana, con un ultimosguardo alla bara, si avviarono versol'uscita.Il moscone saettò verso l'alto, libero...I venti uomini si scossero, come folgoratidalla stessa idea. Si volsero all'unisono.Le loro braccia sollevarono la baracon facilità.Si mossero lentamente, solennemente,verso la pista dove l'aereo per Istanbulscaldava i motori. Gli agenti, sorpresi, lilasciarono passare. Quegli occhi incutevanorispetto.“Quegli occhi incutevano rispetto”Il piccolo corteo raggiunse l'aereo inattesa. A un chilometro di distanza i passeggerisi stavano stipando in un bus navetta.Ma per loro era troppo tardi. Caricaronola bara nella stiva, poi salirono lascaletta. Nessuno mosse un dito per fermarli,neppure quando ordinaronoall'equipaggio di chiudere i portelloni edecollare. Non avevano armi e non cen'era bisogno. Bastarono gli sguardi.Quando l'aereo atterrò sulla vecchiapista dell'aeroporto di Crotone,l'uomo già sapeva che sarebberoarrivati. Non disse una parola, maprese per mano le sue bambine eseguì l'anziano.In cento uscirono dalle roulotte esalirono a bordo. Pochi minuti dopol'aereo lacerò la ragnatela dellenuvole e protese verso il cielo le alibrillanti.All'arrivo a Istanbul una grandefolla lo attendeva. Travolsero icordoni di polizia, guidati e trascinatidalle donne di Gebze. Uscironodall'aeroporto, la bara di Malli Gullùin testa, ed erano già in mille.Quando attraversarono i quartieri diIstanbul e furono centomila, fu chiaroche neanche i blindati li avrebberofermati. La notizia volò. Milioni diprofughi si misero in camminodall'Europa e da tutta la Turchia versooriente.Verso il Kurdistan, verso il sole, ilfieno e il pane.27 ottobre 2001(È tutto vero, tutto... tranne ilfinale: vi prego, facciamo che ungiorno sia vero anche quello...))www.mesopotamiaita.com/dino/0_Pages/081_Senz/wh.htmlIL TESTAMENTO DI DINO“Lascio il mio sorrisoA chi sa ancora sorridere...”Se morissi adesso o fra due giorni o un annoEcco il mio testamento.Il testamento di un comunistaAvido di conoscenza e d’amore, vissuto emorto povero e curioso.Lascio tutto il mio disprezzo a chi mi ha usato.Lascio tutto il mio odioA chi mi ha dato un mondo senza gioia,da attraversare a pugni e denti stretti.Lascio la nostalgia per le moschee diGerusalemme e gli ulivi di PugliaEd ogni roccia pianta finestra stellaChe i miei occhi hanno accarezzato nelcamminoLascio universi di dolcezzaAlle donne che ho amato.Lascio fiumi di parole dette e scritteSpesso con rabbia raramente con saggezzaIn malafede mai,un mare di paroleche già evapora al vento rovente del tempo.Lascio, a chi vorrà raccoglierlo,il testimone del mio entusiasmo,nella folle staffetta mozzafiatovolgendomi indietro dopo vent’anninon so più se ho corso da solo.Lascio il mio sorriso a chi sa ancora sorridereE le mie lacrime a chi sa piangere ancora.Non è poco. In cambio,voglio essere sepolto senza cippi e lapidifra le radici di un albero grandein piena nuda terra rossa e grassaperché il mondo con me respiri ancorae si nutra con me di ogni mia fibra.Con me (non vi sembri retorica)Solo una bandiera rossaE la nave del RitornoIntagliata con le unghie nella pietraDi un prigioniero assetato di vitaNel deserto del Neghev.Dino Frisullo è morto il 5 <strong>giugno</strong> del 2003I <strong>Siciliani</strong><strong>giovani</strong>– pag. 91