La poesia di Claudia Ruggeri: fuoco, vetta e cadutareale, ridotto a un «elemento» che si coagula in un «corpo dato», una sorta di “corposità” del nulla; le primeprospettive di intervento del «caso», che si svilupperanno in chiave mitica; l’incertezza esistenziale dell’«errore» edell’«ipotesi»; l’iperletterarietà del settimo verso, posto ad arte nel diluvio di referenti naturali che gli si oppongono,configurando così un delizioso alterco arte-natura: «esiste un bosco acuto a nozze attinto»; la presentificazione dellascrittura come elemento a sé stante, tutto confitto in una ripetizione («Una volta… una volta») che preannuncia leinfinite propensioni della sua lingua verso esiti nichilistici: «Una volta quando si dice una volta / e lo si dice adesso»; einfine lo splendido, pilotato deflusso di tutto l’accumulo verbale verso il giocoso sentimentalismo degli ultimi due versi,indice di una magistrale padronanza dei vari registri emotivi e della dinamica del verso libero.Sebbene questo sia solo un assaggio, l’essenza stessa della scrittura della Ruggeri è già ravvisabile, seppure in nuce: unascrittura che dovrà lacanianamente compensare il vuoto (che la poetessa avverte come universale), planando suiterritori della psicosi (sentita come un destino ineluttabile), ma che al contempo dovrà, come scrittura, proiettarel’assenza assoluta dell’io, organizzare un discorso in absentia di se stessi e dei dati di realtà, con tutta la corona ditraumi e terrori che questo comporta. Ecco che l’io, da base sicura dalla quale partire, diventa un io, quello dellaRuggeri, che esiste solo dentro il discorso e non altrove, e quindi mai, se non in un conato creativo e ancestrale che è,per lei, ferita e medicamento, vetta e caduta. Eppure, è proprio in questo che risiede la grandezza di questa poetessa: lasua espressività proteiforme parte da una mancanza, da un’assenza a priori di tutto, da un gesto poetico invalidanteche deve fare da contrappasso: già esente dall’invadenza della personalità empirica e individuata, l’autrice puòpresentarsi al mondo come una dilaniante medium, una fessura nella roccia di grandezza indefinibile che soffre per ilsuo svuotamento psichico, ma che produce una poesia che è puro suono. Ma prima di arrivare a questo segno, vi sonoda demolire alcuni materiali inerenti al sogno di un’intenzione razionale che determina l’accadere delle cose.Il primo stadio di questo movimento è la sospensione, grazie alla quale può forgiarsi costantemente la scrittura.In Trilogia e sospensione blu [4], appartenente a un’altra “epoca” della vita dell’autrice, i poeti demitizzati e dimenticatidal favore del destino si fanno avanti, anzi «escono dalle tane», solo dopo che una distrazione fatale, la distrazione diDio nei confronti degli umani, diventa una malvagia e selvatica contraddizione verbale. Il secondo gradino di questadiscesa agli Inferi è la morte: tra le poesie scritte dalla Ruggeri tra i ventitre e ventinove anni (quindi coeve allaformazione di Inferno minore), ve ne sono due che metaforizzano l’assenza come visione terminale della vicendaumana e artistica del singolo [5]. Vorrei sottolineare che esse metaforizzano perché, piuttosto che essere degli epicedi“in morte di”, sono piuttosto dei fenotipi di un abbandono che compie un cerchio magico attorno a se stesso, per nonfarsi penetrare dalla privatezza delle occasioni dalle quali scaturiscono. La scrittura e la morte, in queste pagine, nonhanno nessun nesso di natura causale. La morte è un evento costituzionale, e la sua presenza accanto al mondoperimetrale dell’arte non fa che confermare che ogni motivazione esistenziale non è né trasmissibile né verificabile, maClaudiaRuggeri[4] Ivi, p. 69.[5] Mi riferisco a Perla morte diStefano e In morte diMarcello(giaculatoria), in C.Ruggeri, cit.,rispettivamente pp.65-6 e 78-9.6
La poesia di Claudia Ruggeri: fuoco, vetta e cadutatrae legittimazione solo dal fatto che l’espressione poetica non può essere repressa dal lutto. Raggiunta questaformulazione di inumana empietà, la scrittura può finalmente fluire senza più ostacoli. Nel suo più assoluto artificio,essa può costituirsi in forme dirette e orientate oppure crescere su se stessa come un infinita concrezione verbale.La Ruggeri può anche permettersi il lusso, consentito solo ai grandi scrittori, di scrivere della e sulla scrittura, di ridurreil contenuto a un ridicolo simulacro del passato, di affermare che ogni possibile senso da attribuire al testo è solo iltesto stesso, che si libera definitivamente dalla balzana ipotesi di un’idea che sorregga il discorso. Ed è, in gran parte, lafonicità rituale e incantata del Salento a guidarla in questo processo: le «frasi di contadini» in un foro immaginario, le«preci di donne nere e gonfie», il «lamento» di qualcuno «mentre sgozzava agnelli», una «strana melodia», una«musica benefica», «un lento accordo di pietra / e di divino» che la giovane Claudia ha assorbito, insieme a tutti gli altribrani fonografati dalla sua imponente memoria, per dedicarli all’amico morto, a un amante derelitto o a una qualcheentità non personificabile. È la terza tappa di questa marcia verso la libertà spirituale che occorre per ideare Infernominore: sembra una fuga in avanti, invece è un ritorno alle origini della lallazione poetica, al caos combinatorio dilettere e lemmi infuocati e divoranti. Ora davvero vexilla regis prodeunt inferni:ClaudiaRuggeriCanzone alla lunaFuor dalla terra del rattodel riccio, esco dall’interessepianura. tengo lo sguardo contro l’arsuracontro l’avverso colle verso il Paziente margineministro verso l’anziana Piantadel verso Avvenire con quella mentechiara del mio più Chiaro autore.ché matura in un attimol’immagine del pesce, dell’amarantoIncanto. nessuno scoop, una notiziachiusa nel notiziario scientificodel terzo canale. tra altro materialeastrale, nuovi silenzi7Ché il vento ormai s’elabora di tutte le parolema di parole. Rotolo