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La Toscana nuova Giugno

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La voce

dei poeti

Susy Gillo

Nel “cammino della goccia” la ricerca del senso dell’esistere

di Erika Bresci

L’insignificanza di una goccia colta nella fragilità

nuda della sua frazione di grammo è solo apparente.

Quel suo cammino, la fatica carsica che conosce

la pazienza dell’attesa, l’insinuarsi tra le pieghe del

silenzio, la solitudine dello spazio, la consistenza greve

del buio, non è sterile andare. Scendere in profondità, darsi

alla terra per subire la metamorfosi della roccia, plasmarla

di sé, vivificarla. Caspar David Friedrich, pittore

del paesaggio simbolico, di atmosfere rarefatte e umbratili,

vestite di pallori e di parvenze, che tanto mi sembrano

dialogare con gli infiniti mondi e le meteore, gli universi

spazi e le nebulose presenti nella raccolta di Susy Gillo,

suggeriva: «Chiudi il tuo occhio fisico, al fine di vedere il

tuo quadro con l’occhio dello spirito. Poi porta alla luce

ciò che hai visto nell’oscurità, affinché la tua visione agisca

su altri esseri dall’esterno verso l’interno». Le poesie

di Susy Gillo, distese in versi brevi, liberi dai vincoli di una

punteggiatura che non avrebbe alcun senso nell’apertura

di un tempo che si fa mitico, circolare, costantemente

teso tra presente e passato – età, questa, di infinita nostalgia,

caro rifugio, dimensione autentica: “nel bozzolo

ritrovo il sapore / delle ali della farfalla” –, distillano visioni

di un mondo nel quale l’uomo trova difficile trovare

un proprio posto; in “strade solitarie / attonite / sole in

un neo umanesimo / l’uomo rigettato / nell’ibrido spazio

/ di se stesso” si muove alla ricerca del senso dell’esistere.

Di quella vita che specifica di sé, quasi ossessivamente

nell’intera raccolta, aspetti di un disagio profondo nel

quale l’uomo contemporaneo pare destinato ad annegare.

E così, a precedere il “di vita” si trovano – ritmati anch’essi

con cadenza che scava e si insinua nei precordi – giungla,

pezzi, giogo, cenere, parvenza, accenni, giostra, miseria,

pallore, follie, cerchio, solitudine, dolore, nube tossica,

polvere, sorpasso, assillo, lutto, creando quelle “atmosfere

distopiche” cui fa cenno la senatrice Cinzia Leone nella

felice prefazione al libro, cui si premura di aggiungere

subito dopo “in cui però c’è la possibilità di redenzione”.

“Noi ci salveremo”, ripete a se stessa e a noi lettori la poetessa,

lo sussurra nell’anafora di un anelito, quello stesso

che le fa sperare “di trovare un mondo / che mi accolga”,

che la fa restare vigile “all’ombra del mondo … in cerca /

di Luce”. Poesia potente, questa del “cammino della goccia”,

che richiama ere mitologiche di scontri titanici tra

mondi parcellizzati in meteore, versi nei quali la brutalità,

l’arido vero non si cela all’occhio, dove il dolore è dolore,

la morte rende attoniti, il niente dell’uomo è evidente.

Ma se l’uomo, riconosciuto polvere il potere che credeva

avere tra le mani, svanita in un soffio la triste tracotanza

insieme alla furia cieca del (corona)virus che ha scoperto

al vivo i nervi della nullità dell’essere atomo – atomo

persino la nostra amata Terra, se confrontata alla sovrumanità

dell’infinito universo –, può ancora riconoscere e

confortare il proprio spirito con “il roseo respiro dell’Universo”

che “bacia la nuda terra”, se l’uomo affacciato alla

finestra della vita non esclude se stesso dall’altro, pur rimanendo

in disparte, lo può fare anche e proprio grazie al

cammino lento, doloroso, a tratti buio, insensato all’apparenza

nella grotta dell’Io, per riemergere poi al cielo e non

scoprirsi solo. Perché “La poesia / tiene per mano / guida

/ nel deserto dell’attesa”.

SUSY GILLO

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