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Sangue dal cielo - Sardegna Cultura

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ciato contro una parete unta, sentivo il freddo del marmo<br />

sulla guancia. – Fatevi i fatti vostri! – mi sussurrò<br />

avvicinando le labbra al mio orecchio. – Che ai nostri<br />

ci pensiamo noi.<br />

Fuori <strong>dal</strong> mattatoio la pioggia che mi scrosciava sulla<br />

tesa del cappello mi sembrò provvidenziale. Allargai le<br />

braccia per farmi investire completamente <strong>dal</strong> getto. E<br />

sollevai il mento aprendo la bocca come facevo da<br />

bambino quando volevo capire che sapore avessero le<br />

nuvole. Era desiderio di purificazione. Come se bastasse<br />

quel desiderio per calmare i battiti galoppanti<br />

del mio cuore. Avevo avuto paura: gli occhi di Elias<br />

Tanchis mi avevano fatto paura, le sue mani tozze mi<br />

avevano fatto paura, e la sua voce e l’odore del sangue.<br />

Tutto questo chiedevo al <strong>cielo</strong>: che calmasse quel<br />

trambusto, che mi facesse ritornare padrone di me<br />

stesso.<br />

Avevo fatto passi verso sa Preda Ballarina, verso la<br />

campagna che si assoggettava inerme ad altra pioggia.<br />

E ancora. E ancora. Fili d’erba turgidi, puntuti come<br />

coltelli affilatissimi, si opponevano alle mie scarpe con<br />

fruscii lamentosi. Potevo mettere radici, e fermarmi finalmente,<br />

fissarmi al terreno come un vecchio albero<br />

senza prospettive se non quella di baciare il <strong>cielo</strong> con le<br />

fronde.<br />

Avevo avuto paura. E questa paura non aveva niente<br />

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a che fare con quanto avessi mai provato prima. Era<br />

stata una paura umile, come uno sguardo che cerca un<br />

punto di fuga. Era stato capire che il mondo a mia immagine<br />

era qualcosa che non aveva niente a che vedere<br />

con la realtà. Che non si era trattato di uno scontro alla<br />

pari. Era stato entrare in un universo dispari dove non<br />

c’erano accordi, regole, parole.<br />

L’avevo visto questo mondo, ora l’avevo visto e subìto.<br />

Prima l’avevo solo ipotizzato.<br />

Mi sentii improvvisamente debole, impotente.<br />

Se qualcuno avesse guardato verso di me avrebbe visto<br />

un pazzo, un adulto, un uomo corpulento che batteva<br />

la terra con i piedi e urlava contro il <strong>cielo</strong>.<br />

Ma tanto bastò. Zuppo di pioggia, ansimante, mi piegai<br />

in avanti afferrandomi le ginocchia con le mani. Restai<br />

a fissare il punto microscopico di campagna che<br />

avevo davanti ai piedi. Presi aria e pioggia nei polmoni<br />

con la bocca spalancata. E cominciai a star meglio. Come<br />

un naufrago scampato. Come un muflone sfuggito<br />

all’incendio. Come un atleta al traguardo. Come un poeta<br />

nell’Olimpo.<br />

Una vibrazione sottile corse <strong>dal</strong>le viscere della terra,<br />

la mia terra, ai miei piedi <strong>dal</strong>le piante. Come una scarica<br />

di pura elettricità corse alle gambe e agli inguini e<br />

poi ai lombi e allo stomaco sino alle spalle: una risata<br />

malata come il sussulto di un epilettico.<br />

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