di Bruno Bontempo - Edit

na. Lontani, sì. Qui a Wagna - ho visto la tabella del paese
dall’autocarro - tutto sembra immobile, nessuno parla
con gioia della vicenda, qualcuno lo fa apposta, nessuno
parla della guerra. Almeno una cosa, però, non va male:
siamo tra noi, tanta gente del paese come me. Cerco di capire
cosa sta succedendo, alle volte domando alla guardia
qualche notizia, ma non mi risponde. Chissà perchè. Già,
chissà”.
Dorina Biasiol, maestra elementare.
Campo di Wagna, vicino Leibnitz, Stiria.
Marzo 1916
I
Un colpo di cannone, il fischio in lontananza e poi giù,
verso la terra che rimbalza sotto l’urto di quelle palle pesanti
ed insanguinate già in partenza. La terra esplode,
rimbalza ed esplode, i corpi dell’esercito austrungherese
volano a distanze impossibili, nessuno ha mai visto tanta
violenza in un solo colpo di cannone.
Un altro sibilo, il volo nel cielo notturno, la paura di essere
colpiti trepidamente vacilla dalla base di speranza su
cui poggia quando il sole è alto, gli occhi si fanno curiosi
da un lato e ciechi dall’altro, le orecchie attendono l’urto,
quella pioggia di fuoco che attraverserà il campo nemico e
farà rimbalzare ed esplodere la terra in un attimo.
Fischio, volo e rumore di terra.
Dall’altra parte già si prepara il terzo colpo, quello decisivo,
quello che zittirà la notte. Il cielo si apre, scorrono
rapide le poche nuvole che disturbano le stelle e poi silenzio.
Solo un tremendo silenzio di sospetto e paura.
“Penso che per stanotte i gà finì...”
“Se non i son troppo insemenì dei tiri credo che i scominzierà
de novo tra un ora, forsi due. E se ‘l cannon xè
quel che digo mi, i lo devi forbìr, carigar n’altra volta, preparar
el spago de fogo e le bale. Xè ‘taliani, no i ghe metterà
meno de un’ora...”
“Cosa ti disi, quanto xè che semo qua?”
“Quasi un anno. Ti no ti li conti i giorni?”
“Cosa ti xè mato? Gnanche co iero Pola per l’addestramento...
poi no xè che se li conto duto passa prima.
Per mi xè contrario, più che ghe penso a ‘sta maledetta
guerra e più go paura de no tornar...”
“Ti sa che co iero in Bosnia no gavemo tirà gnanche
un colpo? Sicuro, qualchidun xè sta ciapà co la forza, vizin
de Sarajevo. Ma mi son tornà casa co i stessi tiri che
co iero partì...”
“La prima volta che go ciapà un s’ciopo in man xè stada
co ‘vevo diese anni. El pare mio ‘ndava becàr cinghiai,
el ghe scondeva le trapole in tei boschi vizin de casa e
‘speta, una volta el xè tornà casa con un s’ciopo dell’esercito,
che lu diseva ghe lo gaveva dà un ufiziàl in congedo
venù ‘bitàr Montona...”
La terra esplode. Rimbalza ed esplode. E poi di nuovo,
ad intervalli precisi, fischio, volo e rumore.
“Un’ora, ah?”
“Pensavo ch’el iera el cannon compagno de quel de
prima...”
“Ah, no star sempre a pensar ti...”
Volo e fischio. Niente rumore.
Cinquanta, forse sessanta metri più a destra, rumore, la
terra che esplode. Fiamme su fiamme.
Letture
“Quanti cannoni i gaverà ‘sti ‘taliani?”
“De sicuro no un solo...”
“Grazie, questo gavevo capì anca mi...”
“...due, forse tre...”
Sul fronte della guerra, provocata da uno studente bosniaco
più di un anno prima, in verità i colpi d’artiglieria,
le munizioni e gli spari non erano all’ordine del giorno.
Capitava che si stesse anche per settimane senza vedere
neanche l’ombra del conflitto, senza esser protagonisti di
battaglie, di scontri all’arma bianca, di assalti alla baionetta.
Si stava fermi per giorni e giorni, scavati dentro alla terra,
dentro al corpo umido e vivo del ventre del pianeta, per
giorni e giorni, senza mai uscire allo scoperto, senza che
nessuno sapesse cosa effettivamente al Comando stessero
decidendo. Lì, fermi per ore, sporchi di terra, di polvere da
sparo, macchiati di guerra. Trincee come case, passaggi
sottoterra, cunicoli lunghi centinaia di metri, un andirivieni
continuo di persone, soldati e ufficiali medici.
Spesso il fronte su cui si combatteva era lungo decine
di chilometri e l’esercito nemico sostava ad una distanza
di neanche cento metri dall’altro. Come due mammiferi in
letargo, sepolti sotto una striscia di terra ad aspettare di incontrarsi,
in una violenta e sanguinosa primavera.
Il tempo poi era un elemento scatenante. Si poteva persino
impazzire nel dargli confidenza, farsi raccontare da
lui le mille storie che conosceva e di cui era stato un eccelso
protagonista. C’era chi dopo un po’ lo considerava suo
amico ma spesso poi doveva ricredersi perché poteva sparire
per intere settimane, addirittura mesi.
Mesi, in cui essere appostati sul fronte del Carso, diventava
una vera e propria corsa verso la follia. Una follia
che in tanti percepivano già dai primi momenti, una follia
sola, confidente e amica del fucile, invidiosa di quelli che
partiti non erano, di quelli che erano riusciti a rimanere a
casa, nelle campagne, giù in Istria.
Lucio non si lasciò prendere per matto, non si consegnò
mai, non concluse la sua vita nella folle morte della guerra.
Per tutto, o almeno quasi, il tempo che aveva passato come
soldato in prima linea aveva continuato a pensare ad altro,
a qualcosa di bello, di estremamente felice, di contagioso.
Era convinto che se non l’avesse fatto, la signora dal vestito
nero come le notti di trincea sarebbe andata a trovarlo
molto presto e di certo senza mandargli alcuna convocazione
scritta. Era fante scelto dell’esercito imperiale più
importante del vecchio continente, una simile debolezza
non avrebbe potuto concepirla, né tantomeno sopportarla.
O almeno questo era quello che gli ufficiali, urlando il più
delle volte gli ordini in un tedesco stretto ed incomprensibile
per i numerosi istriani incorporati con la leva obbligatoria,
volevano sentire dai loro sottoposti.
L’artiglieria nel frattempo aveva smesso di bombardare.
Lucio e gli altri soldati da trincea anche per quella notte
potevano dirsi soddisfatti. E perché no, anche un po’ più
leggeri.
“Quanti colpi ‘stanotte?”
“Quattro!”
“E ti?”
“Gnanca un... però go visto passar un lèvero ch’el correva
pulito davanti de noi...”
“E no ti ghe ga tirà?”
“E no go ‘rivà...”
Panorama 35