Stanchi dei fiori - Arte e Arti

IPERuRAnIO - VOL. 1, n. 1
Si narra che il Buddhismo fu ufficialmente introdotto in territorio
nipponico attorno al 552 d. C, nel cosidetto periodo Asuka
(convenzionalmente tra il 550 e il 700), e risale a questo periodo
l’introduzione nell’apparato teologico e culturale del Paese di
alcuni principi fondanti del nuovo culto. Il presentarsi come una
religione sincretica, desiderosa di assorbire lo Shintoismo 2 e non di
distruggerlo, ha permesso l’esaltazione di tutti quei principi legati
all’ambiente naturale già presenti, elevando esponenzialmente il
costrutto ideologico ad esso legato.
L’uomo non appare più “la misura di tutte le cose”; tutti gli elementi
dell’ambiente circostante e da cui dipende la sopravvivenza vanno
necessariamente rispettati, che essi siano un filo d’erba o un animale.
Un’altra argomentazione in grado, forse, di spiegare l’amore
giapponese per la natura è la società essenzialmente agricola che
ha contraddistinto il Paese fino a tempi abbastanza recenti; una
pressoché totale dipendenza dalla coltivazione del riso può, infatti,
essere collegata ad un sentimento per la natura profondamente
radicato e più diffuso che in Occidente. 3
Questo spiega, in parte, l’atteggiamento riverente nei confronti delle
piante, dei fiori e di tutti quei rappresentanti della terra esaltati, non
solo nella forma più pura ed originaria, ma trasposti anche nel mondo
della letteratura, della filosofia e soprattutto dell’arte.
Già nel periodo Heian (794 – 1185), questo tema apparve con regolarità
e frequenza sotto forma di decorazione per tessuti e carta, metallo
e lacca. Ma fu solo con l’avvento del Buddhismo Zen alla metà del
XIII secolo che i temi naturali emersero come soggetto primario
della pittura; gli artisti di questo periodo erano per la maggior parte
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