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Padre padrone - Sardegna Cultura

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savo ammaestrando qualche pecora, ammansendola,<br />

facendola venire da me per toccarla. Con i soliti versi affettivi...<br />

ddddd! lè,lè,lè!lèèèèlè lèlè! e con le ghiande<br />

raccolte sulla destra chiamavo Leperèddha. Si avvicinava<br />

timidamente, poi, lasciandosi vincere dai miei suoni<br />

e dalle ghiande, allungava il muso e si mangiava quello<br />

che le offrivo. Alla fine, quando facevo colazione, Leperèddha<br />

mi si metteva davanti e belava. Voleva il pane.<br />

Le piaceva non solo il formaggio, ma perfino la salsiccia.<br />

Quando si scatenava la natura, però, l’unico passatempo<br />

era ascoltare il discorso della pioggia. Osservare<br />

la sua danza come scendeva ritmata, giocata e frantumata<br />

dal vento. Sul tetto frondoso del bosco, scosso dal<br />

vento, che ululava sulle foglie come un lupo affamato,<br />

l’eco del temporale si spandeva. E nella solitudine, la<br />

parola della natura scatenata dominava su tutto. Io, appoggiato<br />

al fusto di un albero, riparato dalla sua cavità<br />

(in calchi tuva) o sotto la semiluna di qualche macigno<br />

(in calchi perca), riascoltavo di nuovo il vecchio silenzio,<br />

che non avevo dimenticato. Il dialogo rinasceva.<br />

Spesso, mentre parlavo con le pietre e con gli alberi, mi<br />

imbattevo casualmente con Battòre lungo i muri di<br />

confine. Anche lui era sperduto come me con la sua famiglia<br />

in Bestìa vicino al nostro ovile. Era del Bittèse.<br />

La sua famiglia era emigrata nel Logudòro dalla Barbàgia<br />

come tante altre in cerca di pascoli più feraci.<br />

Quando ci si incontrava, mentre mio padre trottava<br />

verso Sìligo, non ci interessava più di nulla, né della pioggia<br />

né del vento. Con versi affettivi, vezzi e mosse, fischi<br />

modulati e gemiti abituali ammaliavamo i nostri greggi<br />

lungo i muri in modo da stare insieme più a lungo possi-<br />

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bile. Parlavamo di cose ingenue. Solo del nostro mondo<br />

vissuto. I discorsi su cose in generale non esistevano.<br />

Quasi sempre, però, quando ci si incontrava, si finiva<br />

per parlarci con un’altra lingua più familiare alla nostra<br />

esperienza. Con la forza. Non è che ci si azzuffasse, ma<br />

si faceva di tutto per esprimere l’uno all’altro il nostro<br />

fisico. Si incominciava con le gare alla corsa sulle mulattiere<br />

correndo da un punto ad un altro imitando gli<br />

agnelli. E anche se stava piovendo a rovescio, ci si superava<br />

senza risparmiarci, guizzando come leprotti inseguiti<br />

dai cani.<br />

La lotta era il discorso più pastorale. Si giocava a s’istrùmpa.<br />

Consisteva nell’atterrare l’avversario mettendolo<br />

con la schiena a terra. Ci si piazzava prima l’uno di<br />

fronte all’altro senza commettere vigliaccheria alcuna.<br />

Ci si avvinghiava alla vita o alla cintola a seconda della<br />

nostra preferenza (purché si fosse tutti e due nello stesso<br />

modo), incrociandoci le braccia a X.<br />

A un segnale convenuto – sono pronto, – se l’altro rispondeva<br />

– sono pronto, – si dava il via. La lotta incominciava<br />

sull’erba senza risparmiarci. La mia carta segreta<br />

era nello sgambetto. Battòre (nonostante fosse<br />

più forte di me) spesso ruzzolava a terra una volta che<br />

lo squilibravo.<br />

– E una per me.<br />

– Voglio la rivincita.<br />

– Va bene! Sei pronto?<br />

– Sì.<br />

– Forza!<br />

– E una anche per me.<br />

– Ora la bella.<br />

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