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Padre padrone - Sardegna Cultura

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elettrizzavano e mi esaltavano con una dolcezza tutta<br />

intima e quasi gelosa.<br />

Spesso in quelle notti quando suonavo insieme al metronomo<br />

delle rane, la musica che producevo nella baracca<br />

mi sembrava quella della “fortuna”. – Sono io<br />

che sto suonando! Non mi sembra vero. Però ci debbo<br />

credere. Anch’io suono.<br />

Con volontà rozza, animalesca, ma inflessibile, le mie<br />

dita, callose e storte dalla zappa, per la prima volta ebbero<br />

l’opportunità di esprimere, alle querce secolari, la<br />

sensibilità di generazioni e generazioni mai educate alla<br />

musica. E attraverso le mie dita l’uomo delle caverne,<br />

ancora intatto dentro di me, ma sensibile in tutta la sua<br />

umanità, incominciava a raddolcirsi con la musica: a<br />

scavare dentro di sé e a scoprire che al di là dei suoi<br />

campi il mondo non finiva con l’orizzonte e che la miniera<br />

delle sue risorse sconfinava da quel cielo che fino<br />

allora conosceva.<br />

La mia conquista, purtroppo, allora non la poté comprendere<br />

nessuno. Nemmeno io la potevo comprendere,<br />

in tutte le sue implicazioni. E i pastori vicini non potevano<br />

sentire che un’estasi istintiva per la mia musica<br />

che si inghiottiva nel silenzio del bosco, come acqua in<br />

terra secca: il luogo aveva sete di dolcezza.<br />

Mio padre non si entusiasmò mai della mia conquista.<br />

– Musicante! Fannullone! Sei buono solo a suonare!<br />

Farai una bella riuscita, come quella di thiu Luìsi.<br />

In ogni mia bagatella ci ficcava la fisarmonica, c’en-<br />

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trasse o meno. Certo, quando lui si assentava, una suonatina<br />

me la facevo, ma nel lavoro recuperavo sempre.<br />

La musica non mi distoglieva dai lavori. Era solo uno<br />

svago curioso, ma non poteva raddolcire l’ambiente. E<br />

fisarmonica o meno a diciotto diciannove anni sorsero<br />

altri problemi che non si potevano più risolvere a Baddhevrùstana.<br />

La famiglia era ormai cresciuta. E per la morale comune<br />

mio padre stava già per completare il suo dovere<br />

sociale. Come gli animali, i pastori dovevano solo mettere<br />

su i figli fisicamente: badare solo alla vegetazione<br />

dei loro figli, anziché alla loro conquista interiore. Ed<br />

era anche giusto. Nei campi serviva solo l’istinto e la<br />

forza: muscoli che questi padri educavano severamente<br />

conformandoli alla natura che dovevano conquistare.<br />

Fatta la covata, si immolavano per crescerli e prepararli<br />

alla vita che conoscevano. Per assolvere questo compito<br />

davano tutto.<br />

Una volta grandi, i figli, però, imitando gli uccelli,<br />

dovevano prendere il volo dal loro nido, possibilmente<br />

per non tornarvi mai più.<br />

E questo stato di cose andò bene finché la campagna<br />

fu il fulcro dell’economia, finché la campagna era il<br />

mondo. Già a partire dagli anni Cinquanta, quel mondo<br />

però si sgretolò e si sciolse come ghiaccio al sole. Il<br />

fuoco di un altro mondo, al di là del suo orizzonte, lo<br />

abbrustolì lentamente. Quel bosco di pastori e di agricoltori<br />

così non faceva in tempo a rigermogliare foglie<br />

nuove per respirare. Pian piano morivano senza conoscere<br />

la causa della loro tragedia.<br />

I campi non offrivano più nulla. Non bastavano. E a<br />

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