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Padre padrone - Sardegna Cultura

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piena di sterpi: ginestre spinose, rovi, cisto (tirìa, ruos e<br />

mudéju). Pascolo ce n’era ben poco. L’unica cosa di<br />

buono per le pecore erano le ghiande e le frasche (sa<br />

landhe e issa sida), indispensabili in caso di siccità o in<br />

periodo nevoso. Il babbo si era ficcato in testa di bonificarla.<br />

Il rimedio c’era: sdebbiarla, dissodarla e seminarla<br />

a rotazione per qualche anno. Il sottobosco sarebbe<br />

andato distrutto. Non era un’impresa facile. I<br />

pastori precedenti ci avevano rinunciato. Gli sterpi e le<br />

macchie gareggiavano con gli alberi nel rigoglio.<br />

Non appena finì la stagione arativa nell’agro paesano<br />

coltivabile (su laósu in s’aidattòne), dove io aravo<br />

alla giornata, si diede il via al disboscamento, alla debbiatura.<br />

Disposti a terziglia, io, Filippo e mio padre,<br />

armati di roncole, di scure o di falce (a seconda dell’opportunità),<br />

si avanzava contro l’interminabile selva<br />

sterposa che rovinava sotto l’incalzare dei nostri<br />

colpi. La legna fine e non spinosa la si componeva in<br />

fasce, mentre quella sterposa la si ammassava lontano<br />

dagli alberi. Le si dava fuoco. E i roghi la riducevano<br />

in cenere. Un mese di debbiatura. In seguito si incominciò<br />

ad arare, a rivoltare quella terra forse mai<br />

“scocciata”, ricca di antica lanugine e di muschio. Nel<br />

giro di due tre anni, la tanca fu tutta pulita e in gran<br />

parte dissodata. L’orzo e l’avena crebbero feraci e il<br />

pascolo rifiorì sulle sue valli ripagando in parte le nostre<br />

fatiche.<br />

Mentre noi ci dibattevamo qua e là per le tanche, la<br />

mamma amministrava la casa. Lei si dedicava all’alleva-<br />

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mento delle galline. Nel giro di due tre anni da che lei<br />

era all’ovile, tutto lo spiazzo già brulicava di galline<br />

bianche, nere e di vario colore. Da lontano mentre io pascevo<br />

le pecore mi sembrava tutto grandinato: si spandevano<br />

dappertutto e si spingevano lontano in cerca di<br />

insetti e di cavallette, divenendo spesso facile preda degli<br />

sparvieri che adocchiatasene una librandosi per l’aria,<br />

si calavano a picco e abbrancatasela tra gli artigli ed<br />

il rostro, decollavano lontano per divorarsela dove volevano.<br />

Al pi, pi, pi! pi, pi, pi, pi! pi, pi, pi!: al tica, tica! tica,<br />

tica! e al ri-pi, pi, pi! pi! pi, pi! pi, pi, pi! della mamma<br />

sbucavano da tutte le parti all’impazzata: dai cespugli,<br />

dalla vigna, dall’orto. Tutte di corsa si adunavano sull’aia<br />

dove si buttava loro da mangiare.<br />

La mamma ci teneva. Ed era allora che si sentiva se<br />

stessa. E mentre spargeva l’orzo o l’avena alle galline<br />

intonava i canti che aveva imparato dal padre: quelli<br />

che cantava quando faceva la contadinella specie durante<br />

la marratura del grano o la mietitura.<br />

Finas in sa campágna amèna<br />

chisco su regìru meu<br />

fattèndhe votos a Deu<br />

chi mi che oghed’ dai bena. 8<br />

In poco tempo il pollaio, che contava oltre 300 galline,<br />

8 Anche nella campagna amena / inseguo l’affanno mio / aih!<br />

facendo voti a Dio / che mi tolga dalla pena.<br />

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