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Padre padrone - Sardegna Cultura

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finalmente, mi consegnavo allo stato che mi aveva sempre<br />

ignorato: alla chimera inventata dai “leoni”.<br />

La partenza ora non poteva essere falsa. Avevo firmato.<br />

Scesi a Baddhevrùstana per dare l’addio alla pastorizia<br />

forzata e ai miei.<br />

E dal basto di Pacifico che mi stava riportando a Sìligo<br />

per partire per sempre, piangevo sentitamente, con<br />

dolore. Quelle campagne ormai erano parte della mia<br />

vita o meglio io ero divenuto una loro parte: un loro albero<br />

speciale sbocciato da un seme sventurato in preda<br />

al vento, ma in compenso dotato di gambe e di movimento.<br />

Mentre Pacifico mi sradicava da loro portandomi via<br />

con tutte le radici, nel silenzio più accorato mi fotografavo<br />

i luoghi a me più cari, imprimendomeli nella mente<br />

una volta per sempre per svilupparmeli con il ricordo,<br />

quasi non li dovessi mai più rivedere. Conoscevo<br />

per nome tutti gli alberi, le rocce, le calanche, i muri e<br />

gli sterpi: gli amati cespugli del campo e della contrada.<br />

Abbandonarli mi sembrava una vigliaccheria, una vergogna.<br />

Man mano che Pacifico trottava, il campo e tutta<br />

la sua gente viva nella mia coscienza ancora infantile<br />

mi salutava e sembrava volesse trattenermi, così come<br />

avevano fatto sotto gli scialli neri le madri degli emigrati<br />

in Australia.<br />

Così lasciai quelle terre e quelle bestie, tutta quella<br />

natura, con le lacrime che mi sgorgavano calde ed abbondanti<br />

rigandomi il volto come quando spesso era<br />

stato colpito dalla pioggia vorticosa mulinata dal vento.<br />

232<br />

E quasi per averne un ricordo più vivo mentre scomparivo<br />

verso luoghi da cui non le avrei riviste se non affettivamente<br />

e solo come erano nate e cresciute nella mia<br />

fantasia, non mi rivoltai più indietro.<br />

Sul trotto della bestia mi riascoltavo il loro saluto corale,<br />

pensando al fatto che l’ingresso a Baddhevrùstana<br />

era avvenuto sulla groppa di un somaro ugualmente tra<br />

il pianto, così come ora stava avvenendo l’uscita. E mi<br />

sembrava strano che il distacco da quella realtà che mi<br />

aveva fatto paura accettare, ora mi stesse causando un<br />

dolore incomparabilmente più grande.<br />

Era il 30 giugno quando partii per il CAR di Siena. Il<br />

volo non lo spiccai dalla solita piazzetta, ma dal bivio di<br />

Bànari, all’uscita di Sìligo. Mi ci accompagnò mio padre,<br />

mentre si stava recando a Baddhevrùstana. Fu l’unica<br />

persona presente alla mia partenza.<br />

Giunti al bivio, si attese il pullman in un imbarazzo<br />

reciproco che ci allacciava come un giogo dispaiato alla<br />

fiera. Nei suoi confronti mi ero sentito sempre come un<br />

capo di bestiame, come Pacifico. Mi aveva dovuto sempre<br />

imbastare ed usarmi come un attrezzo nel lavoro.<br />

Ma nell’attesa mi stavo preparando ad uscire dalla proprietà<br />

di mio padre e stavo incominciando a immaginarmi<br />

diverso dalle altre bestie domestiche. Non ci riuscivo<br />

del tutto. Il tempo stringeva e la circostanza mi<br />

stava strappando dal peculio e ci stava imponendo di<br />

recitare, almeno per un attimo, una parte mai vissuta.<br />

Dentro il nostro timido silenzio, tutti e due ci si preparava<br />

ad essere quello che non eravamo mai potuti essere:<br />

padre e figlio. Impalati lì, l’unica arma cui ognuno<br />

ricorreva per rimanere ancora dentro il nostro rapporto<br />

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