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Abbatteremo il primo sughero che ci capita. Le volpi<br />
ora scendono anche sulla pianura.<br />
– Oggi le pecore non ne fanno di capricci mentre le<br />
mungiamo! Le loro mammelle non sono turgide.<br />
– Ma che turgide (ma ite ghìbberas). Con questo gelo?<br />
Se non muoiono è già tanto. Oggi le pecore le portiamo<br />
giù a issu addhìju. C’è riparo. Forza! Apri il varco<br />
(abbéri s’àidu)!<br />
– Sì.<br />
Finito di mungere le pecore, le conducemmo alla valle.<br />
E passammo per l’oliveto. Il manto bianco oscillava,<br />
ondeggiava, come il mare in tempesta. I cavalloni di neve<br />
si sbattevano frantumandosi uno contro l’altro. Si<br />
sollevavano e danzavano turbinandosi e intrecciandosi<br />
come flutti sparendo nei loro frantumi. La terra così ci<br />
nevicava più del cielo. Le pecore si rifiutavano di camminare.<br />
Il babbo, mentre si passava così per l’oliveto, dietro<br />
le pecore, per caso o perché presentiva qualcosa di grave,<br />
si avvicinò frettolosamente ad una piantina, sommersa<br />
dalla neve, con le branche piegate fino a terra. La<br />
agguantò con forza e la scosse sul fusto come per liberarla<br />
di quel gelido peso. Strappò un ramo dalla sua figlia<br />
e si rese conto subito del disastro. E quasi esterrefatto<br />
frantumò più volte il ramo in più punti tenendolo<br />
tra le mani come un proprio organo ferito: lo osservò<br />
attentamente come se stesse leggendolo e si contorceva<br />
tutto, ma in silenzio. E nervosamente strappava e riguardava.<br />
Scattò d’improvviso verso un altro alberello.<br />
Strappò di nuovo. Sbucciò il ramo e lo lesse. Lo buttò<br />
via sempre in silenzio. E come un forsennato corse ad<br />
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un’altra pianta. Stessa scena. Lui si dimenava più dei<br />
cavalloni della neve che lo assiepavano da tutte le parti.<br />
Correva ansimante, quasi piangendo, con il volto e gli<br />
occhi coperti dal nevischio. E quasi nutrisse ancora<br />
qualche speranza strappò tutte le piante che gli stavano<br />
attorno. Leggeva e rileggeva spasmodicamente la loro<br />
scorza affossando i suoi pollici callosi, ma leggeva sempre<br />
la stessa cosa. E spinto dal dolore come per dimostrare<br />
alla tormenta che solo lui aveva il diritto di uccidere<br />
le proprie figlie sradicò un alberello biforcuto e<br />
correndo avanti e indietro come volesse percuotere la<br />
bufera come tante volte aveva percosso bestiame abusivo<br />
o pastori incoscienti, urlò agli ululati del vento la<br />
sua disperazione.<br />
– Est tottu mortu! Est tottu mortu! I miei lavoriii! I<br />
nostri sacrifici! Tutto perso. Non c’è più speranza. La<br />
mia vita valeva solo una notte di gelido vento! Uno sfogo<br />
della natura ha bruciato tuttoo! Hummmm! Hummmm!<br />
– Ululava insieme al vento sparandogli le fiche a<br />
pollici spianati. – Huuuuu!! Fatti i conti. La speranza!<br />
Dio, dove seiii! Sui miei coglioniii!... Lascia pure qui le<br />
pecore! È tutto bruciato: tutto arso. Non c’è più niente<br />
da preservare dalle bestie. Il gelo si è mangiato tuttooo!!<br />
Il vento gli soffocava la voce in gola riempiendogliela<br />
d’aria. I suoi urli però andavano spegnendosi mentre<br />
la tormenta non abbassava mai la sua voce. Il suo avversario<br />
quella volta era impalpabile e non lo poteva<br />
strozzare.<br />
Io, attonito, lo guardavo nella sua corsa e nella sua<br />
violenza. Tra i nembi del nevischio che lo avvolgevano<br />
era come se si volesse divorare anche la neve.<br />
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