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Padre padrone - Sardegna Cultura

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Spesso anche senza vederlo né notarlo, da lontano,<br />

sentivo il ritmo scatenato del suo lavoro dal continuo<br />

rumore della zappa che lui affossava sulla terra dura e<br />

soprattutto dal tipico frastuono che spesso gli zappatori<br />

producono quando con la loro zappa inavvertitamente<br />

cozzano su una pietra nascosta oppure quando<br />

per pulirla ne sbattono il rovescio contro il primo masso<br />

che capita.<br />

Si era già in febbraio e l’inverno imperversava con<br />

neve e gelo. Thiu Juànne non veniva più con frequenza<br />

come aveva fatto in dicembre e in gennaio. Era malato.<br />

Soffriva di reumatismi. E io dovevo cercare compagnia<br />

con le sbuffate del vento. La capanna di notte, esposta<br />

a tutti i venti, che la filtravano attraverso i pertugi dei<br />

muri rudimentali a secco, quasi in stile nuragico, era divenuta<br />

la mia dimora.<br />

Purtroppo la mia amica capanna non poteva ripararmi<br />

del tutto dal vento gelido e per tutta la notte le raffiche<br />

del vento ululavano tanto che minacciavano di<br />

portarsi via il suo tetto di stoppie. Il freddo spesso mi<br />

svegliava nonostante il ceppo vi rimanesse acceso ininterrottamente<br />

facendo danzare con la sua tremula<br />

fiamma gli arnesi che di giorno ci facevano compagnia<br />

nel lavoro.<br />

I primi freddi di quel terribile febbraio mi regalarono<br />

un tremendo raffreddore che mi accese di febbre. Per<br />

qualche giorno, acceso dal male, mio padre mi lasciò<br />

disteso sulla stuoia al coperto, a pancia a fuoco, in attesa<br />

di segni di miglioramento sotto le sue cure con cui mi<br />

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aveva guarito l’autunno precedente. Anche in tale circostanza<br />

mi somministrò i rimedi che conosceva: latte<br />

caldo zuccherato, un po’ di chinino. Ma solo il mattone<br />

ardente, avvolto di carta e di stracci che mi cambiava<br />

ogni ora da mettere sul petto dolorante, avrebbe dovuto,<br />

secondo lui, essere la medicina migliore. La mamma<br />

in paese si preoccupava, ma lui era sicuro di guarirmi<br />

nella capanna, così come c’era riuscito in autunno. A<br />

Sìligo una vecchia, thia Fiorentìna, come aveva fatto altre<br />

volte, mi fece gli scongiuri contro il malocchio e il<br />

babbo mi portò degli amuleti (sas pungas) da tenere attaccati<br />

al vestito. Purtroppo né la pietra filosofale del<br />

babbo né gli amuleti riuscirono a guarire i miei bronchi<br />

infiammati. Solo con il respiro emettevano i rauchi<br />

suoni del catarro più acuto. Il mattone mi faceva sudare,<br />

ma non sfebbrare. La fronte scottava sempre e i polsi<br />

pulsavano come percorsi da un fiume in gran tempesta.<br />

In capo ad una settimana, il babbo, quando vide<br />

che le cure non davano alcun segno di miglioramento,<br />

decise di portarmi a Sìligo.<br />

Una sera, munte le pecore, sull’imbrunire (ass’interighinàda),<br />

tutto avvolto di giacche logore e di cenci con<br />

cui avevo trascorso tante fredde giornate, mi mise sul<br />

basto e via in paese.<br />

Faceva molta attenzione a non farsi notare dal vicinato.<br />

Guidava attentamente la bestia perché, come al solito,<br />

per disfarsi del carico, non sfregasse contro i cespugli<br />

o i muri del sentiero (in sos muros de s’ottorìnu).<br />

Bisognava eludere le orecchie dei cani vicini. Era preoccupato<br />

per il gregge, che aveva affidato alla sola custodia<br />

di Rusigabèdra. Ed era meglio passare inosservati.<br />

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